sabato 26 gennaio 2008

Meglio tardi che mai: "Underworld" di Don DeLillo (di Simone Cerlini)

Underworld è un capolavoro. Un’opera mondo: come l’Ulisse di Joyce, la Divina Commedia, i Cantos di Ezra Pound. Passarci attraverso è rivedere la nostra epoca, pensare al tempo, invecchiare. Scrivere di Underworld è come scrivere della vita. Dunque si devono cercare strategie nuove, non ci è permesso riciclare. Ho provato a individuare i nuclei di senso che mi parevano essenziali, e qui ne darò veloci titoli: i rifiuti e il senso; la bomba e il terrore; le razze e le parole; la rassegnazione e la pace; la storia e le vite. Poi mi sono accorto che questo lavoro non portava a nulla. Underworld va letto, e a ognuno dirà cose diverse. Dunque di Underwold dirò dell’emozione profonda che mi ha tenuto dentro riga per riga, e della nuova consapevolezza che mi ha lasciato. E cercherò di dirlo non nella forma raziocinante della recensione, ma piuttosto come un diario.

L’emozione
Il lettore entra in Underworld e scopre che Underworld parla di lui, dunque anche di me. Delle persone che conosco, del mondo in cui abito. Per intenderci provo a raccontare un aneddoto. Leggevo il capitolo nove della seconda parte. Leggevo dei pensieri di Marion, in un appartamento di una collega per l’incontro con l’amante. Capitemi, molti, se non tutti hanno vissuto un momento così. In un appartamento sconosciuto. Con una donna che vorremmo amare, ma la vita ce lo impedisce. E dunque io entro nei pensieri di Marion, in Underworld. E nei pensieri di Marion leggo i pensieri della donna che avevo amato, con cui avevo condiviso appartamenti clandestini. Come un’esplosione, un’epifania. E per qualche stranissimo meccanismo mentale non la intendo (ed è un intendere con chiarezza e precisione, un capire profondo), non la intendo solo nei momenti in cui io ero tra le sue braccia, in una identificazione talmente precisa da lasciarmi tramortito, senza fiato. Ma anche nei momenti in cui era con altri. E voglio dire, era come se la vedessi, nei suoi incontri clandestini con un uomo che non ero io. E tutto mi si fa chiaro. Tutto prende forma. Nei pensieri di Marion ci sono i pensieri di tutte le donne in un appartamento clandestino tra le braccia dell’amante. Tutto il sapere segreto che noi amanti infelici aneliamo, con pedinamenti assurdi, cercando di sbirciare nella posta elettronica, nei messaggi del telefono. Tutto era lì. Davanti ai miei occhi. Letteralmente, nero su bianco. De Lillo ci smaschera. Ecco cosa fa, ci smaschera. E dunque davanti a quelle pagine siamo tutti nudi. E’ inquietante. Entusiasmante e inquietante. Perché basta poco per rendersi conto che allora non ci siamo dentro a quel libro solo io e la mia ex amante. No, ci sono anche gli altri. Ci siamo tutti, dentro Underworld. C’è il mondo. C’è la vita. E c’è con una chiarezza e una precisione che ci costringe a vedere le cose con una nuova consapevolezza. Sbirciare negli angoli del romanzo è gettare lo sguardo negli anfratti più nascosti delle persone che ci sono vicine, è come un vederle dalla fessura della porta, quando non sanno di essere osservate e sono profondamente loro stesse. Underworld ci spoglia tutti, ci rende trasparenti.

La consapevolezza
Prima di incontrare Underwold, perché di questo si tratta, di un incontro, pensavo che il mondo fosse popolato di monchi. Ognuno di noi si lascia alle spalle cadaveri, amori negati, abbandoni. Camminiamo per le strade senza una gamba, o un occhio, come se nulla fosse. E il nostro zoppicare si vede appena, gli altri ci fanno appena caso, e non se ne interessano, perché chiedercene conto li mette nel rischio di essere interrogati a loro volta sulle loro menomazioni. Ma quella mancanza a noi è ben chiara. Ce la portiamo dentro come un handicap permanente. E dunque intendevo le persone a partire dalle loro mutilazioni. Poi ho capito che guardavo la cosa dalla parte sbagliata. Ci aiuta a capire il mondo meglio l’eccesso che la mancanza. Le persone hanno tanta vita dentro di loro che non potremo mai capirle fino in fondo, perché non avremo mai l’intero mondo di eventi ed emozioni che fa di loro ciò che sono. E il nostro sentirci freak, in una cosmica solitudine, o nemici del mondo, vittime deformi che abitano un Unterwelt dove la bomba è già scoppiata, dipende dal fatto che abbiamo dentro tanta vita, tanti riferimenti, tanti imprevedibili eventi, da farci singolari e inconoscibili. Per descrivere una sola delle nostre emozioni è necessario un libro come Underworld. E in Underworld questa consapevolezza arriva come una secchiata d’acqua gelida dopo ore di pioggia insistente. Non c’è una parola superflua, una linea narrativa da cui si possa prescindere. Il mondo si intreccia per regalarci l’emozione profonda e vera dei personaggi. E sentiamo di capirli fino in fondo perché il romanzo ce ne dà fino in fondo le ragioni. C’è un episodio in proposito che vorrei citare, di una forza espressiva e di un carico simbolico esemplare. E’ un regalo di compleanno: Nick e Marion su una mongolfiera, nel deserto, sorvolano una ciclopica opera di land art composta da centinaia di B52 dismessi. Provate a leggere Underwold. Poi a rileggerlo. Arrivate a quella pagina e sentirete l’emozione nei vostri canali lacrimali. E quell’emozione è chiara perché insieme alla visione mistica del deserto e dei bombardieri colorati trovate la bomba H, la storia, il terrore, i rifiuti, il senso, le parole, i silenzi, l’amore, il tradimento, l’infanzia, la famiglia, l’abbandono, la passione, la rassegnazione, la morte, la pace.

Underworld è un capolavoro. Di Underwold non si può parlare. Underworld va letto. E vi ficcherà la lingua in bocca talmente a fondo da trafiggervi il cuore.

Underworld, di Don DeLillo, Einaudi, 1999
Titolo dell’opera originale: Underworld, 1997
Traduzione dall’inglese: Delfina Vezzoli