venerdì 7 marzo 2008

Al mercoledì il cinema costa di meno: "Non è un paese per vecchi" (di Fabio Orrico)

Un piccolo paradosso: avrei voluto che “Non è un paese per vecchi” fosse stato girato da un regista con meno ambizioni e meno talento dei Coen. Uno che sappia fare fruttare una bella storia ma poco incline a metterci del suo. Merce rara al giorno d’oggi. Ecco, diciamo un redivivo Henry Hathaway o magari un nuovo Robert Mulligan. Non voglio essere ingeneroso con i due geniali fratellini. In effetti loro non fanno altro che seguire il canovaccio che un librettista d’eccezione come Cormac McCarthy (scrittore che, lo sapete, nel cuore di questa discarica regna incontrastato) gli sottopone, riservandosi solo la licenza poetica di un caschetto sulla testa del robotico Anton Chigurg alias Javier Bardem. E siamo arrivati alla mia unica riserva: perché quel taglio di capelli? Nell’opera di McCarthy Chigurg è un personaggio archetipico. Suoi fratelli sono il giudice Holden di “Meridiano di sangue” e il Lester Ballard di “Figlio di Dio”. Questi personaggi non sono semplici villain. Sono il male puro. Onnipresenti, indistruttibili, inclini a una filosofia distorta e a una logica deforme. Non solo non dovrebbero portare un caschetto come quello sfoggiato da Bardem nel film ma non dovrebbero quasi avere tratti somatici. Il taglio di capelli del Chigurg di celluloide lo apparenta molto di più a Tarantino che a McCarthy e introduce una nota di grottesco che sparge un po’ di scivoloso olio sulla tranquilla strada del film, peraltro gratificato, come si sa, da svariati oscar (e uno puntuale a Javier belli capelli). Detto questo, la scena del dialogo fra lo sceriffo Bell interpretato dal sempre grande Tommy Lee Jones e l’amico paralitico è semplicemente splendida e, grazie alla fotografia del geniale Roger Deakins, i Coen ci regalano alcune delle più belle inquadrature del cinema moderno. Capita spesso, in questo film, che le persone trapassino dalla carne all’ombra. La loro fisionomia si radicalizza e disperde fino a diventare appunto, ombra. Ombre che parlano sullo sfondo di città e deserti irreali, loro stessi doppi fondi di una tragedia già consumata. È con questa sapiente economia dell’immagine che i Coen rendono giustizia a Cormac. Non con quel maledetto taglio di capelli.

lunedì 18 febbraio 2008

Racconti: "Vite americana" di Gianfranco Franchi

Con grande piacere pubblichiamo un estratto dal nuovo e ancora inedito libro di Gianfranco Franchi, autore, com'è noto, a noi amico e sodale

VITE AMERICANA


Lei è distesa sul divano, batte con le dita sul pavimento e guarda l’impianto stereo. Mi dedica uno sguardo incerto, socchiude le labbra ma non dice niente, sospira e poi scuote la testa. Maya vestida guarda per terra. Continuo a camminare per la stanza. Avanti e indietro. Ogni tanto mi siedo da qualche parte, m’accendo una sigaretta, bevo un goccio d’acqua. La bottiglia è ancora fredda. Rimango alle spalle del divano, perché sto pensando: adesso si leva i pantaloni, si leva le calze, si alza, viene verso di me, si leva la maglietta, si slaccia il reggiseno, scopiamo e magari mi passa. È sempre andata così, mi parte il neurone idiota e buonanotte, a tornare a dialogare c’è tempo e mica è detto che serva. È da un pezzo che stiamo così. Il fuoco se ne è andato e assieme ha sparecchiato qualche domanda. O forse non sono stato bravo abbastanza ad andarmene in tempo, neanche stavolta. E mi sono rotto i coglioni, c’è poco da girarci attorno. Lei invece non si spoglia. La chiamo, le dico vieni qua, non risponde. La fantasia si dissolve in un attimo, il tempo di andare di fronte al divano. Sta là, come una pianta che ha avuto troppa acqua, compiaciuta e un po’ stordita, gonfia. Distesa languida, che ascolta i Sigur Ros e la posa è necessaria. Mi avvicino, mi piego sulle ginocchia. Scricchiolano un po’, come la puntina d’un vinile.

“Ciao” – premo piano con l’indice sulla guancia.
“Che succede…?”
“Niente”.
“C’è qualcosa che non va?”
“No”.

T’ho detto no, non adesso, dai dopo, vediamo, aspetta un attimo, devo finire una cosa, domani dai, domani. Adesso non mi va, non lo so. E non pensi a nient’altro, te l’ho detto che non lo so e che non mi va. Dai adesso no.

“Ti va di uscire?”
“Non lo so…”
“Cinema? Quattro passi? Pizza fuori?”
“Non mi va…”
“Cambio disco?”
“E cambia…”

I Doors sono diventati accademia, i Radiohead non sono adatti al momento, i Blur prima maniera non la divertono più, allora no, e niente italiani che poi rubano i dialoghi e diciamo le parole che stiamo ascoltando, e niente Alice in Chains o Mad Season che non le vanno giù. Mi gioco i Deus del 1994.

“Worst Case Scenario” è un disco complesso e cambia spesso ritmo e colore. Vediamo. Apro il cassetto del lettore cd, levo il disco dei Sigur Ros. Play.
Lei non tiene la intro.

“Cos’è?”
“I Deus”.
“Chi?”
“Forse conoscevi questa…”
Telecomando. Digito 13. Secret Hell. Arpeggio gentile spaccacuore.
Niente.
“No. Nuovi?”
“No”.
“Capito”.

Mi alzo in piedi, tiro una bestemmia ma non mi sente perché parlo praticamente sottotraccia, cammino fino in cucina, metto su un caffè. È il quarto e non ce n’era realmente bisogno, ma se non faccio qualcosa impazzisco. Non riesco a resistere, devo scappare da qua.
Preparo, lei fa capolino dal divano, mi dice io due di zucchero come sempre, io prendo il sale e poi ci ripenso, rimango là a guardare la cuccuma che gorgoglia. Lei si sarà già distesa, e se mi sta guardando non serve.
Intanto comincio a cantare con i miei amici belgi. “I’m in this state / kinda late / but tell me, don’t it look just great? / you / you should be haunting me / some drift get twisted before I even touch ‘em / you should be scaring me / but don’t I only scare myself? / so don’t I only scare myself?”

Verso.
“Tazza grande, tazzina?”
“Tazzina”.
“Non sono mai riuscito…”
“Le tazze da burino te le bevi tu”.
“…”
“Lo sapevo! Te lo sei versato in quella della Roma. Che coatto…”
“E vabbe’, succede. Meglio sicuramente de…”
“E adesso ti sei offeso”.
Non posso ascoltare i Deus se parliamo così.
“No. Tieni, occhio che scotta”.
“Grazie. Mi porti l’acqua?”
Portatore d’acqua.

“Tieni”.
“Grazie”.
“Mi dici che succede?”
“Niente…”
“No, no niente. Dimmi che c’hai…”
“Ma niente, dai. Ho soltanto fatto un brutto sogno stanotte…”
“Dimmi”.
“Stavo a una festa con Claudia e incontravamo delle persone”.
“E poi?”
“E uno di questi era l’amico del mio ex ragazzo, quello che è andato in Germania a lavorare per la Kenwood…”
“mmm”.
“E mi diceva che non pensava di rivedermi più, che ero rimasta identica a tanti anni fa e che mi aveva pensato. Allora diventavo timida, come sempre, sorridevo e andavo in corridoio e là c’era uno specchio e nello specchio non c’ero io”.
“E chi c’era?”
“C’era Claudia”.

Che cazzo di sogno è? E neanche ho voglia di interpretarlo.
“Strano, sì”.
“Strano, no? Strano davvero. Mi sono svegliata con un po’ d’ansia, prima cosa che ho fatto stamattina è stata andare allo specchio”.
“E c’era Claudia?”
“Che scemo…”

“Mi dai un bacio?”

“Mi sa che sei tu che c’hai qualcosa…”
Mi gratto la barba di qualche giorno.
“No. Sono solo un po’ stanco”.
“Ce l’hai con me? È che oggi proprio non mi va… non so… se vuoi lo facciamo lo stesso ma non aspettarti niente…”
“Va a ramengo, dai. Sta buona”.
“Scusa…”
“Non fa niente”.

Guardo fuori dalla finestra. Devo andare a bagnare le piante.
Le faccio cenno, esco. Comincio dal fondo. Prima le bouganville, poi le ortensie e il gelsomino. Poi il rosmarino e all’altezza delle piante officinali appare lei.
“Non è più come prima” – e ha un’aria un po’ diversa da prima.
“No. Mi dispiace tanto però…”
“Forse è colpa mia”.
Passo al basilico.
“No. Non è colpa di nessuno. Va così”.
“Secondo te è meglio se non ci vediamo più, vero?”
“Io non frequento le ex…”.
“Già mi manchi…”
“Immagino”.
Timo. Poca acqua.
“Vuoi una sigaretta?”
“No”.
“Forse è meglio solo che non ci vediamo qualche giorno…”
“Forse”.
Prezzemolo. Cresce.
“Proviamo così? Il primo che ha nostalgia chiama?”
Col cazzo.
“Va bene. Ma torniamo soltanto se stiamo bene e vogliamo soltanto questo”.
Salvia.
“Ce l’hai con me, Guido?”
“Non ce l’ho con te. Non ce l’ho con nessuno”.
“Mi abbracci?”
“Vieni qua. Sta attenta all’acqua”. Che già te ne ho data troppa.

“Stasera stiamo insieme lo stesso?”
No. Te ne devi andare.
“Dipende”.
“Dipende?”
“No, va. Meglio di no. Poi mi viene voglia di te e ci soffro”.
Non è vero.
“Capito”.

Senti io vado, va bene dai, ho parcheggiato un po’ lontano però non voglio che mi accompagni, va bene vai, per favore davvero fammi scendere da sola e fammi andare da sola. D’accordo, rose e limone, cautela con l’acqua al limone, alzo la testa dai vasi, lei ha l’atteggiamento dei grandi momenti, è ferma sulla porta a vetri, mi dice ciao, dico ciao, mezzo sorriso, smozzica un sorriso anche lei, poi si volta prende e va.

Questa cazzo di vite americana non smette di crescere.

Al mercoledì il cinema costa di meno: "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford" (di Fabio Orrico)

“L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” diretto dall’australiano Andrew Dominik è, secondo chi scrive, uno dei film più importanti degli ultimi anni. La trama, in breve: giunto agli ultimi bagliori del suo crepuscolo criminale, Jesse James, fuorilegge già celebrato dalla stampa pulp dell’epoca, organizza l’ultima rapina al treno (sequenza strepitosa!). Robert Ford, il più giovane membro della banda, nutre per il bandito una venerazione che, scontratasi ben presto con l’indifferenza del capobanda, diventa disprezzo. Robert uccide Jesse a tradimento dando inizio, suo malgrado, al mito del “fuorilegge sociale” Jesse James, novello Robin Hood e raddrizzatore di torti nel vecchio sud. Niente di più falso, ovviamente. Se non lo si è capito, un film abbastanza povero drammaturgicamente, un’opera costruita sulla tenuta dei personaggi, sul senso del paesaggio, sullo scorrere di un tempo filmico sonnambolico, ipnotico. Procediamo per punti.
La tradizione: “L’assassinio” è un film profondamente inattuale. Ha la concretezza e il fulgore di un osso primitivo, percorso da abrasioni e sbrecciature. Piove in un contesto cinematografico, quello statunitense, in cui l’unico cinema d’autore possibile (Eastwood a parte) sembra identificarsi con i concetti di cinefilia, ironia, distanza critica, ammiccamento colto. Quindi non c’entra pressocché nulla con l’andazzo generale. Piove dentro un genere, il western, che, fatalmente e anche un po’ paradossalmente, sembra poter essere solo d’autore, sia nelle sue forme più deteriori (il brutto remake di “Quel treno per Yuma” di Mangold) che in quelle eccellenti (il solito Eastwood, Costner, il sorprendente Tommy Lee Jones), ma lo fa con l’umile arroganza di chi sa il fatto suo. Andrew Dominik è al secondo film, come il vecchio Cimino de “Il cacciatore”. Bella coincidenza. La sua inattualità lo colloca in una tradizione precisa del cinema americano, una tradizione che non può essere ridotta allo scenario western, seppure soverchiante. Si parte da Ford per toccare le sue antitesi Arthur Penn e Monte Hellman coi loro western diversamente spiazzanti e antiretorici e si arriva a Terrence Malick e ai suoi paesaggi che hanno lo spessore di grandi personaggi tragici. In mezzo due decenni (i ’60 e i ’70) in cui si riscrivevano le regole dei generi e a cui “L’assassinio” guarda col suo sguardo incrostato di malinconia e risentimento.
Il tempo: La ragione del fascino e della riuscita di questo film sta anche nel sapere raccontare le cose prendendosi il giusto tempo. Dominik dilata ed enfatizza le scene restituendoci un’epica del quotidiano che non sarebbe dispiaciuta a Raymond Carver. Ogni sequenza è girata da maestro, e in questo senso buona parte di merito bisogna darlo alla fotografia di Roger Deakins, maestosa, abbacinante, ma senza mai rischiare l’oleografia o lo svolazzo “arty”.
Le persone: o i personaggi. Dominik sembra essere un gran direttore di attori. Tutto il cast è straordinario e trova le sue punte di diamante nei fratelli Ford resi da Casey Affleck e Sam Rockwell. Ma straordinario è anche lo spettrale Jesse James di Brad Pitt (la coppa Volpi a Venezia era tutt’altro che immeritata). Menzione d’onore per il cameo di Sam Shepard, scrittore da noi amatissimo e qui strepitoso nel ruolo di Frank James, il fratello maggiore del protagonista.
I personaggi: o le persone. Jesse James al cinema lo abbiamo visto tante volte: Tyrone Power in “Jess il bandito” di Henry King o Robert Duvall in “La banda di Jesse James” di Philip Kaufman. A noi è restato nel cuore “I cavalieri dalle lunghe ombre” con James e Stacy Keach nella parte dei fratelli rapinatori. Dominik è il primo a raccontarci un Jesse James del tutto privo di tentazioni romantiche e a descrivercelo come un criminale senza scrupoli. Prima di lui ricordiamo solo il personaggio tratteggiato da Valerio Evangelisti nei suoi grandi romanzi di ambientazione western “Black flag” e “Antracite”.
Mi fermo. Credo che ne riparlerò tra qualche giorno.

Al mercoledì il cinema costa di meno: Il Petroliere di Paul Thomas Anderson (di Simone Cerlini)

Daniel Pleinview, un cercatore d'argento marchiato da una assoluta solitudine, si spezza le gambe nelle mine, si rialza, si converte a cercatore di petrolio, adotta un bambino di un minatore morto per farne una bambola utile a intenerire i contadini, se lo porta con sé, fino in una sperduta e arida landa ai confini con la California, dove un oceano di petrolio aspetta qualcuno che lo succhi via dalla terra. E qui affronta la sua nemesi, un predicatore fanatico con cui inizia un gioco di reciproche umiliazioni, per concludersi nel sangue dopo trent'anni.

Il petroliere, There will be blood il titolo originale, è forse il film più bello di questa stagione, per ora. Il petroliere è un ossimoro. Non è un film commerciale, ma è un film spettacolare. Non è un film di facile visione, ma incanta. E’ un film epico, e parla di affetti familiari. E’ un film di un alessitimico brutale, ed è carico di tenerezza. E’ un film costruito su grandiose visioni, e tratta della parola. E’ un film sul capitalismo su cui si fonda l’America e dunque il mondo, ma racconta trent’anni di vita di una sola persona. E’ un film sul confronto tra verità e menzogna, ma non ci sono narrazioni vere o false. Ci sono i corpi che si fanno terra, e si impastano nel fango e nel petrolio, ma è un film di idee. E’ un film grandioso e imperfetto, dunque lo amiamo.

C’è troppo. E il troppo disturba. C’è l’epopea di un uomo contro il mondo, c’è il confronto tra gli Dei e i loro portavoce per il controllo di altri uomini.
C’è la sempiterna lotta tra la religione di Dio e la religione del progresso, viste entrambe come strumenti di alienazione, ma tra le quali, alla fine, risulta facile scegliere. C’è la sovrumana potenza della terra e del tempo. C’è il doloroso confronto con il proprio passato, dal rifiuto alla nostalgia. Ci sono i fratelli, il tema del doppio. C’è lo sfruttamento dell’infanzia. C’è la tenerezza del rapporto paterno. C’è l’amicizia tradita. C’è la mancanza di senso, c’è la lucidità preveggente. Troppo.

E questo troppo per certuni è faticoso. Non per noi. Le due ore e trentotto corrono lasciandoci con gli occhi spalancati e la sensazione di assistere ad uno spettacolo raro.

Le montagne e i deserti sono stupefacenti e sublimi, schiacciano gli uomini nell’immensità dello spazio. Si susseguono quadri maestosi, dalle fiamme del pozzo alla visione del mare. I corpi diventano materia inerte, il sangue si mischia al petrolio e all’alcool e all’argilla e alla terra. Le parole diventano il vero punto focale: sono persuasione (il discorso del “venditore” Plainview è degno del monologo di Enrico V prima della battaglia di Azincourt), sono inganno nei sermoni del predicatore fanatico e sono dolore e amore nel mutismo del figlio e nella sua rassegnazione.

La meravigliosa colonna sonora, carica di ossessione e dolore, con le note sempre distoniche alle scene e mai didascaliche, accompagna la misantropia assoluta di Plainview e il suo cercare contraddittorio un legame al passato, alla radice, alla famiglia, in una vita che si è costruita fondata sulla sfida, nell’odio per l’umanità intera e nella rissa. La durezza brutale dei suoi rapporti si frastaglia nelle cure per un bambino che è insieme strumento per il successo e unico e disperato tratto di umanità e tenerezza.

Il finale, crudo e liberatorio, ha il sapore di un atto di giustizia: l'inquadratura di Daniel Day-Lewis rosso e ubriaco, strofinato e indurito, che osserva quasi ammirato le ultime bugie di un viscido Paul Dano rimarrà a lungo impressa nella retina.

Bellissimo. Non riesco a non pensarci. In confronto la malattia di JeanDo è la risata di un nano.

Il petroliere (There Will Be Blood)
Un film di Paul Thomas Anderson. Con Daniel Day-Lewis, Paul Dano, Kevin O'Connor, Ciarán Hinds, Dillon Freasier, Colleen Foy. Genere Drammatico, colore 158 minuti. - Produzione USA 2007. - Distribuzione Buena Vista

giovedì 7 febbraio 2008

Al mercoledì il cinema costa di meno: Angel di François Ozon (di Simone Cerlini)

Ozon è un genio sbarazzino e coraggioso. Non ha timore a mescolare le carte, a creare minestroni stilistici, ad affrontare il kitch senza pudori, ma come puro oggetto di studio. Tratto da un romanzo del '57, scritto da una Elizabeth Taylor dal nome impegnativo e dall'invidia feroce per gli scrittori di successo, il film percorre la vita di Angel, orfana di padre nella Londra di inizio secolo, che vive con la madre una decorosa normalità. Ma lei sogna qualcosa di diverso. Sogna ricchezza, fama, l'amore romantico, vestiti sgargianti. E sogna con tanta forza da realizzare le sue pacchiane rêveries. Scrive, e con enorme successo. Si compra la villa chiamata "Paradise", oggetto delle sue fantasticherie infantili, si compra l'uomo che ama, si circonda di pavoni, gatti, pappagalli, cappellini improbabili. Poi la tragedia: il suo amore ritorna dalla guerra senza una gamba, infelice, e si suicida. Angel inizia un lungo tormentato declino, il pubblico le volta le spalle, scopre che l'uomo che amava aveva un'altra, con cui aveva avuto un figlio, una allucinata lucidità le fa riconoscere alla soglia della morte i veri affetti.
Angel è un film finocchio. Non alla Derek Jarman o alla Fassbinder, intendiamoci, ma proprio frocio, di una frociaggine sbilenca e sfacciata. Angel è un'eroina gay, senza dubbio, di quei gay autoironici e pacchiani che amano Senso di Visconti e il melodramma. E lo è perché ricrea completamente la realtà in una finzione assoluta in quanto il mondo, così com'è, è inaccettabile. Ecco allora che l'antipatia della protagonista, bulletta sbruffona ignorante, senza talento e per di più di successo, si trasforma in tenerezza ed empatia, perché la sua vita è una ostinata e inveterata lotta donchichottesca con la realtà. Il film ha un vestito sfavillante e divertente, i richiami al cinema dei '50 e gli ammiccamenti kitch lo fanno godibile dall'inizio alla fine (la dichiarazione d'amore sotto il sole, la pioggia e l'arcobaleno, tutto insieme, è una sequenza favolosa, ma trattenete le risate, perché la vecchietta al vostro fianco è commossa davvero); ma ha un'anima tragica, e non per il deragliamento melodrammatico della trama, ma per il destino ineluttabilmente fallimentare del progetto di vita della protagonista: negare il mondo. C'è una scena che dà un briciolo di verità al film (senza esagerare, ovvio). Angel incontra la donna alla quale la sua cocciuta e insensata determinazione ha letteralmente scippato la vita. Le ha scippato però la paccottiglia, i segni finti ed esteriori. Quella donna la sovrasta perché, al contrario di lei, è autentica. Lasciatemi citare in ultimo il cameo della Rampling, capace di rendere eloquente l'assoluta e ostentata inespressività. Per me Angel è un film da non perdere. Andate al cinema, subito!

Angel - La vita, il romanzo (Angel)
Un film di François Ozon. Con Romola Garai, Lucy Russell, Michael Fassbender, Sam Neill, Charlotte Rampling, Jacqueline Tong, Janine Duvitski, Christopher Benjamin. Genere Drammatico, colore 118 minuti. - Produzione Gran Bretagna, Belgio, Francia 2007. - Distribuzione Teodora Film

Al mercoledì il cinema costa di meno: Cous Cous di Abdel Kechiche (di Simone Cerlini)

Slimane, sessantenne magrebino da una vita in Francia, lavora da 35 anni al porto. Non è produttivo, costa troppo, lo licenziano. E' separato, vive con la nuova compagna nell'albergo di lei, mentre la sua chiassosa e numerosa famiglia continua a trovarsi alla domenica per il rituale pranzone con nonne figli e nipoti. Decide di tentare il riscatto e investe la sua indennità di licenziamento in un'impresa impossibile: un ristorante di Cous Cous.
Attenzione, perché questa roba qui non è Ken Loach. La filigrana sociale degli operai portuali e della comunità arabo francese di Marsiglia è piuttosto un contenitore, un ambiente, un paesaggio.
Cous cous tratta della famiglia. E lo fa con stilemi claustrofobici, toni striduli e gracchianti, e chilometri di pellicola. Si sbadiglia, non tutto è chiaro, in certi momenti si prova fastidio fisico per le voci sempre eccessive, per l'ossessiva musica magrebina, per la fronte imperlata di sudore e le imperfezioni del corpo, per il testardo trascorrere dei minuti, per le torrenziali tirate isteriche delle donne. Poi si intuisce una fine tragica. Buio. Titoli di coda. Tutti a casa. E il giorno dopo ci si accorge che è successo qualcosa. Ci si ricorda del pranzo familiare come se ci fossimo stati anche noi e ci annusiamo le dita per cercarne tracce di pesce o della nafta del porto. Il cinema di Kelchiche apparentemente non fa mediazioni, non toglie nulla, non seleziona. Filma le cose che paiono accadere. Ci invita a vedere insieme a lui. O almeno così pare. Perché tutto sommato Kelchiche nella puzza di nafta e nell'aroma di cefali ci propone un operazione furbetta, dove a passare sullo schermo non è la realtà, alla quale saremmo dispostissimi a credere. Ma una immagine del mondo calcolata e costruita, che ci racconta una storia apparentemente tragica, ma in realtà a lieto fine, dove il successo nasce dal collaborare insieme per il bene comune, superando le liti da cortile e le passioni sanguigne del mediterraneo.
Nella famiglia arabo-francese allargata ci riconosciamo tutti. Con pochi ritocchi il copione poteva trasformarsi in una storia di famiglie italiane e i moli di Sète, che a me fa venire in mente le fantasie lubriche di Brassens, potrebbero essere a Brindisi o a Taranto. Cous cous tratta della famiglia, e lo fa con sequenze a cui ci pare di avere da sempre assistito, a partire dalle domeniche e dalle feste comandate della prima infanzia. E così, indagando camera a spalla le rughe o la pancetta dei personaggi, i seni debordanti e la pelle arrossata, i denti gialli e i brufoletti, Kechiche ci frega, ci fa credere di guardare il mondo vero, ci seduce con richiami odori e sapori delle nostre stesse latitudini, poi ci porta nel suo mondo, e cerca di dirci qualcosa. Da vedere e rivedere la chiacchierata dei pensionati in veranda e l'interminabile pranzo familiare, che non lesina le mani sudicie di cibo, gli spruzzi e le lische di pesce tra i denti. Andate a vedere questo film, c'è molta più intelligenza di quello che sembra.

Cous Cous (La Graine et le Mulet)
Un film di Abdel Kechiche. Con Habib Boufares, Hafsia Herzi, Faridah Benkhetache, Abdelhamid Aktouche, Bouraouïa Marzouk, Alice Houri. Genere Drammatico, colore 151 minuti. - Produzione Francia 2007. - Distribuzione Lucky Red

martedì 5 febbraio 2008

Roberto Pagnani (di Domenico Settevendemie)

il poeta Domenico Settevendemie riferisce della mostra del pittore Roberto Pagnani

Dipinti di Roberto Pagnani.
Mostra allestita da “Cadeart” presso studio legale Donelli ed associati, via Corrado Ricci 29 Ravenna. Mostra visitabile dal lunedì al venerdì ore 15.30/ 19.00 fino al 20 febbraio 2008.
Presso gli stessi locali seguirà mostra dello scultore Riccardo Bottazzi di Ferrara dal 22.02.08.
Per info: e-mail: ilariasx@hotmail.com.


Da che mondo e tempo gli oggetti prestano indiscriminatamente il fianco alla mano dell’uomo. Succede ogni giorno, ad ogni ora della paga giornaliera smazzettata sull’unghia 24 volte, diurna o serale che sia, poco importa. Non paiono opporre alcuna forma di resistenza, di più, la stessa resistenza pare un concetto riducibile a dettaglio insignificante, ad insulsa dabbenaggine frutto di qualche inutile speculazione mentale se riferita agli oggetti. Sono il risultato dell’invenzione ma non hanno anima né sangue propri, quindi mancano di diritti e ancor prima di relazioni possibili, scaturibili, allora perché mai dovrebbero opporsi all’uomo. D’altra parte avete mai letto del suicidio tentato da uno spremiagrumi per la girandola di avvitamenti cui viene sottoposto? O della consensuale richiesta di divorzio tra un mouse e la tastiera di un computer dopo anni di onorato concubinaggio? No, certamente. E gli avvocati presenti non avranno difficoltà a confermarvelo. Io pure, che sono avvocato di breve corso, non posso far altro che dargli ragione. Discorso chiuso, caso chiuso perché mai aperto, quindi. Gli oggetti restino pure al loro posto, al posto da altri deciso per loro. Ottusi aggeggi, arrendevoli come sempre sono stati ed in balia delle nostre voglie. Non potrebbero fare altrimenti. La stilo di pregio rintanata entro una comoda bocchetta, la penna da pochi centesimi riversa invece sul tavolo priva di protezione, le posate ammonticchiate l’una sopra l’altra perché l’ossigeno ha altri a cui pensare, la caffettiera a troneggiare in mezzo ad un vassoio o lasciata al fondo di un lavabo in attesa della toeletta, e così via. Solo lo scopo ed il fine a presiedere ogni loro movimento, con l’utilità a correre su di un corpo rigorosamente senza fiato e gambe.
Eppure i pittori da sempre si ostinano a volerli ritrarre, questi oggetti, con tale foga ed abnegazione, con tale arrogante cocciutaggine, fino quasi al punto di dolersi ed inveirvi contro per l’incapacità di questi ultimi a restare fermi in posa per tutto il tempo necessario a fissarli sulla tela. Quasi si muovessero per un improvviso crampo ai muscoli dovuto alla lunga imposizione della rigidità, al pari di un modello sfinito. Ma se gli oggetti non hanno sangue, se non hanno il folto acceso della spinta pilifera, se non soffrono la stanchezza, se non combinano cromosomicamente con il sudore, i sorrisi od il pianto dell’uomo, cosa scatena in chi li ritrae tanta devozione e pervicace fratellanza? Il semplice gusto del grottesco, dell’ingenuo divertissement? Puro esercizio di stile, nonsense marcato dal talento? O c’è dell’altro? Che sia quel ritorno alla vita insito nelle cose, in tutte le cose, anche le più inerti, spontaneo ed allo stesso tempo coniugato al paradiso di uno sguardo che in loro si specchia e vi vede attraverso? E’ sorprendente che alcuni uomini abbiano creduto di poter stabilire un rapporto vitale, quasi erotico tra sé e gli oggetti divenuti per tale via consorelle o amanti mai sazie, facendo semplicemente ricorso alla tavolozza dei colori. Altro che nature morte, la natura morta non esiste, parola di Cézanne, è la stessa pittura ad essere natura nella sua più ampia ed omnicomprensiva accezione, fino a superare gli angusti confini cui viene costretta dalla semantica, nulla può e deve escludersi, pena un inganno terribile che si compie a danno dei nostri sensi. Lui non fu certo l’unico a pensarla così, anche se il suo modo di esprimersi, tra una reprimenda vomitata nel privato del suo studio ed una pubblica ingiuria scagliata contro il mondo con la forza di mille giavellottisti, resta ancora oggi per certi aspetti insuperabile. I migliori esempi della figurazione contemporanea sono persino arrivati a dimostrare attraverso le loro opere dell’avvenuto azzeramento di distanze tra quanto è animato e quanto non lo è, nell’atto della sua espressione in arte. Espressione esaudita come un desiderio che si abbevera del proprio succo creativo man mano che la polpa s’ingrassa a spese del talento. Il cannibale che è in noi. Libagioni ricche di sostanza faranno allora aumentare a dismisura la sete dell’artista, boli di cibo scenderanno veloci, giù, fino alle caviglie, per risalire infine ai polpastrelli, dove dipingere si traduce in una tecnica del corpo e della mente insieme.
Ecco il punto. E’ consentito dare degna figurazione degli oggetti a chi non si sia limitato a raffigurarli, avendoli vissuti pienamente. A chi abbia intrecciato con essi una relazione di solida mutualità. La forma avrà allora calore e colore equamente sparsi sulla tela, per mostrare come le cose si fanno cose senza alcun rapporto di subordinazione necessario nei confronti dell’uomo. A tale sintetico risultato è pervenuto, con un pizzico di sobria follia, Roberto Pagnani, il cui atto creativo e compositivo procede non dalla conoscenza artificiosa delle sue leggi, ma da una complicità illuminata e per nulla scaramantica verso quell’universo di presenze che siede con noi, che con noi quotidianamente mangia la stessa polvere. Attraverso il gesto del pittore, placide caffettiere accomodate su sghembi-lembi di tavolini, si aprono alla confessione più disparata. Come un balsamo contagioso il disegno si fa tramite dei loro ricordi più antichi che le vide ergersi a troni per vecchi re, reclinarsi dolcemente come belle conchiglie pettinate dalla salsedine o dilatarsi in chiglie prosperose. E’ il passato degli oggetti, la possibilità di una propria memoria non ridotta a silenzio né sottomessa. Ma pure il loro futuro. La caffettiera si anima, si sbraccia raccontando la sua storia, cambia di fattezze pur restando sul tavolo, e su di esso germoglia la concezione della linea e dei pieni come attributo positivo e proprietà caratteriale della materia non carnale di cui è fatta una comunissima moka. Il silenzio non è il fatale destino cui gli oggetti devono piegarsi, ma una pausa del respiro tra una frase e l’altra esattamente come lo è per noi. Roberto Pagnani, nei suoi fondali puntualmente color crema introduce il rilievo di una buffa macchinetta capace di tollerare con la stessa naturalezza le conversazioni tra umani seduti attorno a lei, ed il fuoco sopra cui viene fatta portare ad ebollizione. Ma non c’è nulla di visionario in tutto questo, al contrario è presente la tanta concretezza che caratterizza il ciclo di opere qui in esposizione, la concretezza dell’attenzione verso il quotidiano, dell’ascolto che avanza ed indietreggia senza freni come una fisarmonica al culmine della sua passione sonora, del pensiero che non si accontenta di abitare il solo visibile a lui consanguineo. E tutto ciò che dipinge è in risposta a questi stimoli. Il caffè rimane una curiosa bevanda da gustare da soli o in compagnia, la caffettiera quel prezioso alleato che te ne fornisce la possibilità. Nulla cambia quanto alle nostre abitudini. Per tutto il resto, beh, per tutto il resto dipende davvero da noi e dalla nostra voglia di non perderci in una semplice tazzina di caffè ma di trovarvi, magari solo per gioco, un intero mondo dentro tutto da scoprire. Con queste tele Roberto ha intrapreso il suo viaggio. E voi?