lunedì 18 febbraio 2008

Al mercoledì il cinema costa di meno: "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford" (di Fabio Orrico)

“L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” diretto dall’australiano Andrew Dominik è, secondo chi scrive, uno dei film più importanti degli ultimi anni. La trama, in breve: giunto agli ultimi bagliori del suo crepuscolo criminale, Jesse James, fuorilegge già celebrato dalla stampa pulp dell’epoca, organizza l’ultima rapina al treno (sequenza strepitosa!). Robert Ford, il più giovane membro della banda, nutre per il bandito una venerazione che, scontratasi ben presto con l’indifferenza del capobanda, diventa disprezzo. Robert uccide Jesse a tradimento dando inizio, suo malgrado, al mito del “fuorilegge sociale” Jesse James, novello Robin Hood e raddrizzatore di torti nel vecchio sud. Niente di più falso, ovviamente. Se non lo si è capito, un film abbastanza povero drammaturgicamente, un’opera costruita sulla tenuta dei personaggi, sul senso del paesaggio, sullo scorrere di un tempo filmico sonnambolico, ipnotico. Procediamo per punti.
La tradizione: “L’assassinio” è un film profondamente inattuale. Ha la concretezza e il fulgore di un osso primitivo, percorso da abrasioni e sbrecciature. Piove in un contesto cinematografico, quello statunitense, in cui l’unico cinema d’autore possibile (Eastwood a parte) sembra identificarsi con i concetti di cinefilia, ironia, distanza critica, ammiccamento colto. Quindi non c’entra pressocché nulla con l’andazzo generale. Piove dentro un genere, il western, che, fatalmente e anche un po’ paradossalmente, sembra poter essere solo d’autore, sia nelle sue forme più deteriori (il brutto remake di “Quel treno per Yuma” di Mangold) che in quelle eccellenti (il solito Eastwood, Costner, il sorprendente Tommy Lee Jones), ma lo fa con l’umile arroganza di chi sa il fatto suo. Andrew Dominik è al secondo film, come il vecchio Cimino de “Il cacciatore”. Bella coincidenza. La sua inattualità lo colloca in una tradizione precisa del cinema americano, una tradizione che non può essere ridotta allo scenario western, seppure soverchiante. Si parte da Ford per toccare le sue antitesi Arthur Penn e Monte Hellman coi loro western diversamente spiazzanti e antiretorici e si arriva a Terrence Malick e ai suoi paesaggi che hanno lo spessore di grandi personaggi tragici. In mezzo due decenni (i ’60 e i ’70) in cui si riscrivevano le regole dei generi e a cui “L’assassinio” guarda col suo sguardo incrostato di malinconia e risentimento.
Il tempo: La ragione del fascino e della riuscita di questo film sta anche nel sapere raccontare le cose prendendosi il giusto tempo. Dominik dilata ed enfatizza le scene restituendoci un’epica del quotidiano che non sarebbe dispiaciuta a Raymond Carver. Ogni sequenza è girata da maestro, e in questo senso buona parte di merito bisogna darlo alla fotografia di Roger Deakins, maestosa, abbacinante, ma senza mai rischiare l’oleografia o lo svolazzo “arty”.
Le persone: o i personaggi. Dominik sembra essere un gran direttore di attori. Tutto il cast è straordinario e trova le sue punte di diamante nei fratelli Ford resi da Casey Affleck e Sam Rockwell. Ma straordinario è anche lo spettrale Jesse James di Brad Pitt (la coppa Volpi a Venezia era tutt’altro che immeritata). Menzione d’onore per il cameo di Sam Shepard, scrittore da noi amatissimo e qui strepitoso nel ruolo di Frank James, il fratello maggiore del protagonista.
I personaggi: o le persone. Jesse James al cinema lo abbiamo visto tante volte: Tyrone Power in “Jess il bandito” di Henry King o Robert Duvall in “La banda di Jesse James” di Philip Kaufman. A noi è restato nel cuore “I cavalieri dalle lunghe ombre” con James e Stacy Keach nella parte dei fratelli rapinatori. Dominik è il primo a raccontarci un Jesse James del tutto privo di tentazioni romantiche e a descrivercelo come un criminale senza scrupoli. Prima di lui ricordiamo solo il personaggio tratteggiato da Valerio Evangelisti nei suoi grandi romanzi di ambientazione western “Black flag” e “Antracite”.
Mi fermo. Credo che ne riparlerò tra qualche giorno.

1 commento:

Simone Cerlini ha detto...

Magari è anche vero che ce la diciamo tra di noi, e un commento postato da un redattore non è il massimo dell'apertura al mondo. Ma la recensione di Fabio è così densa e pregnante da essere essa stessa un pezzo d'arte. Vorrei avere il suo smisurato agio nella storia del cinema e della letteratura. Ci sguazza come mia figlia nella piscinetta dei bambini.