sabato 29 dicembre 2007

Bando di concorso

signori, come vuole la nostra breve tradizione non smettiamo di segnalare gli eventi che ci paiono interessanti, quindi ecco di seguito il bando del concorso promosso dalla deliziosa Ilenia Tenti, nostra futura collaboratrice

IL COMUNE DI BELLARIA IGEA-MARINA
IN COLLABORAZIONE CON L’ASSOCIAZIONE ISOLA DEI PLATANI E L’ASSOCIAZIONE AGORA’ 2000
BANDISCE :

10° CONCORSO A PREMI DI SCRITTURA AMOROSA
DOVEVAMO SAPERLO CHE L’AMORE BRUCIA LA VITA E FA VOLARE IL VENTO



Regolamento:
1. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione del seguente regolamento.
2. Il concorso è rivolto a tutti i cittadini italiani e stranieri senza alcun limite d’età.
3. La partecipazione al concorso è completamente gratuita.
4. La data di scadenza è posta al 31/01/2008; il materiale che perverrà dopo questa data non sarà preso in considerazione dalla giuria del concorso.
5. Il concorso è suddiviso in due sezioni: una (definita sezione 1) per elaborati in forma di poesia o racconto breve editi e/o inediti in lingua italiana che abbiano come tema l’amore nelle sue più varie accezioni; una (definita sezione 2) riguardante la selezione di un commento ad una poesia scelta dalla giuria e sotto riportata nelle modalità che verranno espresse al punto 12 del regolamento.
6. La giuria, il cui giudizio è unico e insindacabile, è unica per le due sezioni. Presidente della giuria è Umberto Piersanti, Professore presso l’Università di Urbino Facoltà di Lettere di Sociologia della letteratura, poeta pubblicato da Einaudi e direttore della rivista “Pelagos”.
7. Per la sezione-1-poesia ogni autore potrà inviare 3 componimenti di massimo 30 versi ciascuno.
8. Per la sezione-1-prosa il limite massimo è di 150 (centocinquanta) parole nel qual numero saranno compresi articoli, congiunzioni, preposizioni.
9. Ogni testo dovrà pervenire in forma dattiloscritta in numero di 4 copie.
10. Gli elaborati partecipanti al premio non saranno restituiti.
11. I primi 10 autori della sezione 1 vedranno le loro opere raccolte in un’antologia che porterà lo stesso nome del concorso edita da “Fara editore” e ne riceveranno in numero di 10 copie ciascuno il giorno della premiazione.
12. La sezione 2 prevede la premiazione del miglior commento scritto in versi o in prosa (massimo 15 righe dattiloscritte che dovrà pervenire in numero di 4 copie) del componimento “Come il vento del Nord rosso di fulmini” del lirico greco Ibico nella traduzione di Salvatore Quasimodo sotto riportato. La giuria esprimerà un giudizio premiando il commento più originale, emozionale e personale.
13. Anche il vincitore della sezione 2 vedrà il suo testo pubblicato nell’antologia sopra citata ricevendone 10 copie il giorno della premiazione.
14. Gli autori premiati saranno avvisati per tempo attraverso telefono o comunicato stampa e sono tenuti a presenziare alla cerimonia di premiazione che avverrà il 17/02/2008 con modalità e in luogo da definirsi; coloro che non potranno essere presenti potranno delegare persone di loro fiducia per il ritiro del Premio assegnato.
15. Ogni elaborato spedito via posta deve giungere in busta chiusa accompagnato da un foglio contenente i seguenti dati personali: nome, cognome, data di nascita, residenza, recapito telefonico, professione al seguente indirizzo: Concorso di scrittura amorosa “L’amore dura ancora” Associazione Agorà 2000 via Vittorio Veneto, 400 47020 Longiano (FC).
16. Per l’invio con posta elettronica le cartelle devono contenere gli stessi dati sopra citati ed essere spedite a scrivilamore@fastwebnet.it
17. PREMI SEZIONE 1:
- 1° Buono omaggio presso l’Agenzia Viaggi Boari per un viaggio in destinazione a scelta di chi lo utilizza.
- 2° Soggiorno di un week-end a Bellaria-Igea Marina.
- 3 °Cena per due persone
18. PREMIO SEZIONE 2:
- Soggiorno di una settimana a Bellaria- Igea Marina

19. Ai sensi dell'art.1° della L.675/96, si informa che i dati personali relativi ai partecipanti saranno utilizzati unicamente ai fini del concorso.


IBICO
COME IL VENTO DEL NORD ROSSO DI FULMINI
A Primavera, quando
l’acqua dei fiumi deriva nelle gore
e lungo l’orto sacro delle vergini
ai meli cidonii apre il fiore, e altro fiore assale i tralci della vite
nel buio delle foglie;

in me Eros,
che mai alcuna età mi rasserena,
come il vento del Nord rosso di fulmini,
rapido muove: così, torbido
spietato arso di demenza,
custodisce tenace nella mente
tutte le voglie che avevo da ragazzo.

Trad. Salvatore Quasimodo


Informazioni:
Agorà 2000 tel. 329 3099

giovedì 13 dicembre 2007

Meglio tardi che mai: "Il circolo chiuso" di J. Coe (di Simone Cerlini)

Circolo chiuso è il dichiarato seguito de “La banda dei brocchi” ed anzi sembra concepito per dare risposta alle domande che il romanzo precedente aveva lasciato irrisolte. Chi ha amato la saga della famiglia Trotter e del gruppo di amici della scuola King William di Birmingham potrà immergersi nuovamente nell’assuefazione da feuilleton a puntate, divertendosi a scoprire i rimandi e le citazioni interne, i piccoli indizi, disseminati con perizia lungo trent’anni di vita inglese (dai settanta al nuovo secolo). I piccoli indizi conducono alla soluzione di enigmi lasciati in sospeso nel primo romanzo: Claire trova il coraggio per scoprire che fine ha fatto la sorella Miriam, scomparsa misteriosamente. Phil Chase fa luce sull’episodio del boicottaggio dell’esame di fisica del compagno di colore Steve Richards. Benjamin scopre l’origine terrena del costume da bagno che lo salvò da sicura vergogna. Ma ancora più potente è la curiosità per le domande che il romanzo precedente come ogni romanzo lasciava al futuro di se stesso: quale futuro attende gli operai di Longbridge con il governo Tatcher e con il New Labour di Tony Blair? Quale sorte riserva il destino per Sean Harding il burlone, o per l’amore impossibile tra Cicely l’attrice e Benjamin il sognatore? Il romanzo porta a compimento tutte le linee narrative, e di fatto chiude il circolo, dipingendo la vita adulta come un prolungamento delle aspirazioni dell’adolescenza, senza rottura reale, in un mondo consolatorio dove alla fine ciascuno ottiene ciò che vuole, ciascuno a modo suo.
La macchia narrativa è dunque costruita come una sovrapposizione di gialli e di misteri, che trovano risposte spesso intuibili, a volte sorprendenti. Rimane, chiuso il libro, l’impressione di essere stati sapientemente ingannati, perché il desiderio di seguire l’intreccio conduce in un labirinto dove gli eventi diventano irrilevanti e traspare anche troppo smaccatamente il senso simbolico della saga, che cerca di redimere un’inventiva altrimenti da soap opera.
I personaggi diventano a ben vedere se non simboli sicuramente caricature: ad esempio Paul, su cui ruota gran parte dell’intreccio, è lo stereotipo del parlamentare del nuovo millennio, per cui tutti i temi sono più grandi di lui, e aderisce alla politica per ambizione, per smania di riconoscimento e visibilità. Doug è il giornalista di successo, nel quale è troppo evidente, al limite del grottesco, lo scarto tra le proprie idee politiche senza se e senza ma (da buon figlio del proletariato industriale militante) e il proprio stile di vita venduto al lusso del migliore quartiere di Londra.
Ma la chiave per tale ribaltamento di senso (dalla saga borghese alla denuncia politica) è nella figura misteriosa di Sean Harding, apparentemente comprimario, che infesta della sua chiassosa assenza tutte le pagine del romanzo. Sean Harding ci parla della fine dello spirito ribelle e rivoluzionario degli anni settanta, tradito in una forma sempre più estrema di conservatorismo.
Per Coe l’Inghilterra a cavallo del duemila è ancora una terra della paura, dove ognuno, anche animato da buone intenzioni, vuole solo e semplicemente difendere il proprio recinto e condividere la propria vita con persone simili, con replicanti di sé, in un circolo chiuso, dove l'altro è escluso. Il sentimento antirlandese degli anni settanta diventa scontro razziale; il fondamentalismo islamico, la retorica delle buone tradizioni antiche, il liberismo esapaerato sono opzioni in cui si maschera il rifiuto dell’altro e del diverso, il desiderio di vincere la paura chiudendo le porte ad ogni elemento destabilizzante, che minaccia il proprio ordine o l’ordine della propria comunità.
C’è dunque evoluzione e non continuità con “La famiglia Winshaw”, dove più evidente era l’intento politico di Jonathan Coe: là era evidente, fin semplicistico, chi erano i cattivi e chi i buoni. Qui invece la differenza è più sfumata se le femministe di sinistra dure e pure sono pronte a difendere top manager senza scrupoli. E lo fanno andando a scavare nella melma della retorica più becera: “Devi imparare a vedere al di là della superficie delle persone, Patrick. Non si tratta solo di quello che fa la gente. Si tratta delle loro qualità umane”.
Questa femminista inflessibile arriverà poi a convivere con un amore architetto nelle colline toscane, sorseggiando prelibato vino rosso insieme ai propri cari amici radical chic, in un mondo dove i veri proletari (pakistani o caraibici) sono tollerati, compresi, compatiti, aiutati, ma è meglio frequentarli il meno possibile. La paura dunque è la chiave anche per comprendere le vicende private dei protagonisti, che si muovono nella dialettica tra la vita famigliare e l’infedeltà, tra la responsabilità e il desiderio dirompente, tra il successo e la realizzazione personale.

Non esiste una terza via, e non si inventa nulla, né in politica né in amore.

Circolo chiuso, di Jonathan Coe, Feltrinelli, 2005
Titolo dell’opera originale: Closed Circle, 2004
Traduzione dall’inglese: Delfina Vezzosi

Meglio tardi che mai: "Bestie" di J.C.Oates (di Simone Cerlini)

Il professore Andre Harrow si scopa le sue studentesse con la complicità interessata della moglie. Il romanzo ci racconta di questo poligono dal punto di vista di una ragazza particolarmente dotata di sensibilità e bei capelli. Ad un primo impatto la lettura è piacevole per noi maschietti perché ci consente di immedesimarci in desideri mai sopiti del tutto: la seduzione di giovani studentesse con la complicità interessata della moglie. Ma questa gustosa identificazione con il docente dongiovanni si arena nella scoperta di una perversione da guardoni ed esibizionisti in cui noi lettori ci specchiamo con disgusto. La fantasia degli amplessi vari e multicolori con le ragazze finisce infatti in squallide polaroid sbattute nelle pagine di riviste pornografiche, in pose quasi didascaliche, che costringono a riconoscere modelli presi dall’abuso di sesso estremo dato da Internet, e che arriva alle foto agghiaccianti di Abu Grahib (individui a quattro zampe trascinati con collare da cane). Questa feroce presa di coscienza del limite del nostro desiderio (erotico in particolare) ha un impatto che colpisce allo stomaco, fa vergognare, annichilisce. Bestie è dunque romanzo sull’abuso (del proprio potere e del proprio carisma, ma anche dell’istinto, che diventa coatto e tiranno).

Bestie è anche romanzo iniziatico, sull’adolescenza. La parabola della protagonista, che si racconta senza pietà in prima persona, è la parabola del riconoscimento della propria bestialità, ma anche della presa d’atto dei suoi limiti. L’infanzia conosce il mondo attraverso le convenzioni e le buone maniere, e lo affronta con la vergogna e il pudore. L’adolescente sperimenta, riconosce il proprio essere carne e lo vive nell’ansia della scoperta. La maturità è la presa d’atto della propria identità, in cui il desiderio viene compreso nei suoi limiti e vissuto come tale. Non siamo di fronte ad una costruzione simbolica semplicistica, eretta su stereotipi: la coppia di perversi maniaci non è identificabile tout court con il male assoluto, anzi è un motore di educazione e coscienza. Non tutto quanto decanta Harrow, nella retorica della liberazione sessuale, viene abbandonato: nella maturità della protagonista si intravvede una scelta bisex, che il cattivo maestro avrebbe approvato e promosso.

La negatività della coppia di adulti sta invece in un tradimento del proprio essere bestie (quindi innocenti), per il godimento dell’uso del potere, per un processo di mercificazione dei corpi, per una manipolazione colpevole. La fine è dunque nella distruzione dei maestri e dei padri, che dopo essere stati adorati e glorificati, vengono negati e uccisi per riscoprire la propria indentità. Il percorso di Gillian, la narratrice, è dunque il percorso di progressivo affrancamento: dalle convenzioni, prima, dalla manipolazione degli altri, poi. E’ dunque un percorso di libertà, nella sua accezione più propriamente femminile, un percorso di liberazione e purificazione nel fuoco.

Il romanzo, nella sua brevità, ricorda le atmosfere noir di “Giro di vite” di Henry James: una progressiva caduta, un continuo avvilupparsi nella perversione più estrema, con la capacità di metterci in guardia, di creare specchi potenti, di rivelare le nostre profonde debolezze. Ed in questo meccanismo è possibile riconoscere un materiale narrativo volutamente denso, che colpisce nelle viscere, incanta, è capace di una denuncia non retorica, ma onesta.

Per capire meglio

Xipe Totec: Divinità della mitologia tolteca, Dio della Terra e della Primavera, cui erano dedicati sacrifici umani crudelissimi: le vittime venivano spellate vive e la loro pelle veniva indossata dai sacerdoti. Questa divinità era il corrispondente maschile della Dea della fertilità Tlalolteotl, ed i sacrifici offerti avevano lo scopo di propiziare i raccolti nel periodo della semina.

Quaalud: sostanza ipnotica

Parole chiave: noir, abuso, iniziazione, adolescenza, vergogna, innocenza, anoressia, sterilità, scoperta, droga, carne, desiderio, bestialità, fertilità, arroganza, oppressione, esibizionismo, pornografia, mercificazione, colpa, liberazione, distruzione, fuoco, arte, poesia.


Bestie, di Joyce Carol Oates, Mondadori, 2002
Titolo dell’opera originale: Beasts, 2002
Traduzione dall’inglese: Katia Bagnoli

martedì 11 dicembre 2007

Su "Michael Cimino" di Giancarlo Mancini (di Fabio Orrico)

Tra i grandi registi americani del nostro tempo Michael Cimino è uno di quelli che può contare meno studi critici organizzati in monografie. Ricordiamo un volume edito da Falsopiano qualche anno fa dal titolo “America perduta” firmato da Roberto Lasagna e Massimo Benvegnù e un lontanissimo quaderno monografico dell’85 del quale non ricordo l’editore ma che ospitava al suo interno bei saggi, tra gli altri, di Claver Salizzato, Piera Detassis, Ermanno Comuzio. Questo testo di Giancarlo Mancini, semplicemente intitolato col nome del regista preso in esame si segnala, a mio avviso, come la migliore delle monografie finora pubblicate.
Innanzitutto metto le carte in tavola: per Michael Cimino e il suo cinema io nutro una vera e proprio venerazione. I motivi sono tanti: la temperatura emotiva che si respira nei suoi film, l’intensità delle sue passioni, la densità del suo linguaggio, l’enfasi dilatata delle sue scene e dei suoi paesaggi. E poi le ossessioni: l’immigrazione, le mille razze e le mille lingue del suo paese, la bandiera americana che appare mossa dal vento nelle sue inquadrature ariose e lentissime, i rituali, le fragorose scene di ballo, gli amori e i duelli all’ultimo sangue. Il tempo passato dal momento in cui ho visto il libro di Mancini sullo scaffale e l’acquisto può essere misurato in nanosecondi. E davvero è stato un incontro felice perché quello di Giancarlo Mancini (critico giovanissimo tra l’altro: è del ’77) è uno splendido lavoro. Innanzitutto l’autore non si limita all’analisi delle opere del regista (che naturalmente c’è, ed è ottima), ma nei primi due capitoli del libro mette in relazione Cimino col cinema del suo tempo, con la sua generazione di colleghi, rilevando differenze e affinità e raccontando lo spaccato di un momento felicissimo e fertile del cinema americano. La nuova Hollywood battezzata da Arthur Penn e Sam Peckinpah (in fondo padri spirituali del grande Michael), la generazione dei movie brats che ha in Coppola la sua testa d’ariete per scardinare le porte del cinema dei padri, Friedkin, Bogdanovich, Hopper, Malick sono alcune delle figure evocate che hanno dato vita insieme a Cimino a una delle fasi più straordinarie della storia di Hollywood, l’epoca in cui, parola di Robert Altman: “Sembrava possibile realizzare qualunque progetto”. E allo stesso tempo Mancini ci spiega come fosse diversa la formazione di Cimino rispetto a quella degli autori suoi coetanei. Studi di recitazione e architettura, apprendistato nel mondo delle pubblicità a sostituire il mare di ore passate dai giovani Scorsese e Spielberg e Milius a vedere film e discuterne. Cimino ribadisce sempre di non essere un cinefilo. Prima di Ford, Kurosawa e Visconti (la sua personale trimurti) ad appassionarlo sono stati Brunelleschi, Lloyd Wright, Degas e Nabokov. E d’altra parte troppo personale è sempre stata la lingua del suo cinema per non sospettare una formazione trasversale a tutto quanto.
Altro pregio del libro è la carrellata, veloce ma precisa, sui progetti non realizzati del nostro, vera e propria filmografia parallela ma immaginaria che comprende un biopic di Dostoevskij (su sceneggiatura di Raymond Carver, scrittore la cui sensibilità è molto affine a quella di Cimino, aldilà delle etichette di “minimalista” e “epico”), un gangster-movie su Frank Costello, un mastodontico western sulla costruzione della ferrovia americana, l’agognatissimo remake de “La fonte meravigliosa” di King Vidor e tanti altri titoli fantasma che contribuiscono a riempire i cassetti di uno dei cineasti più geniali e disordinati di sempre.
Il resto si sa: di Cimino si parla più per la sua megalomania che per il suo talento, e così la sua fitzgeraldiana parabola di gloria e declino è minuziosamente descritta. Gli esordi alla corte di Clint Eastwood (“Una calibro 20 per lo specialista” è un film bellissimo e struggente, di cui si parla troppo poco), gli oscar dell’epocale “Il cacciatore” e la debacle dello smisurato “I cancelli del cielo” (un capolavoro torrenziale pochissimo visto nella sua versione integrale di tre ore e mezza ed è l’unica versione che si può accettare), il ritorno con “L’anno del dragone”, la nuova caduta del “Siciliano” (un film da rivalutare!), gli arabeschi registici sulla tenue trama di “Ore disperate” e l’ultimo (per ora) viaggio nel commovente “Verso il sole” (ovvero come si fa un western nel nuovo millennio). Il libro non informa del corto girato da Cimino per il film collettivo “Chacun son cinema” presentato all’ultimo festival di Cannes. Si dice sia piuttosto deludente e la cosa non ci sorprende: a un regista come Michael è strutturalmente impossibile stare sotto le due ore. Figuriamoci vederlo alle prese con un cortometraggio. Nel frattempo, da quasi dieci anni, Cimino sta lavorando a una versione cinematografica de “La condizione umana” di Andrè Malraux. Sarebbe davvero un bel regalo poter vedere un film simile, ma probabilmente non lo vedremo mai. A differenza di grandi esiliati come Romero, Altman, lo stesso Coppola, Cimino non è mai più riuscito a tornare nelle grazie degli studios. Artista sedotta dall’eccesso e dallo spreco, Michael non ha mai concepito l’altalena produttiva che sposa il low budget al pieno controllo della macchina produttiva. Se Peckinpah ha dovuto subire per tutta la carriera i tagli dei produttori, se Scorsese ha dovuto alternare film personali ad opere su commissione, Cimino si è visto semplicemente costretto al silenzio e probabilmente adesso è davvero troppo tardi per tornare. Sembra la frase fatta di un pensionato ma il cinema americano non è realmente più quello di una volta. Chissà che risate si farebbe il grande Michael se mai trovasse la voglia il tempo il coraggio di vedere una roba tipo “300”.

domenica 9 dicembre 2007

Il grande carnevale americano: Horace McCoy (di Fabio Orrico)

Sono da poco usciti due libri diversamente interessanti. Hanno in comune il merito di avere ispirato due grandi film: mi riferisco a "Non si uccidono così anche i cavalli?" di Horace McCoy (da cui l'omonimo film di Sydney Pollack) e "I guerrieri della notte" di Sol Yurick (versione cinematografica griffata Walther Hill) e, notizia che ai più non interesserà, sono due titoli che l'estensore del presente pezzo aspettava con ansia da anni. Ebbene, il libro di Yurick non mi è piaciuto granché. Mi è sembrato un dramma sociale afflitto da scarso mordente e da molta retorica. Se aggiungete la postfazione dell'autore in cui si demolisce il capolavoro di sua maestà Walther potete immaginare come la guerra tra me e Sol sia ormai dichiarata. Quindi, se permettete, parliamo di Horace, del quale circola da anni un prezioso Einaudi dal titolo "Un bacio e addio" gran noir che comunque non raggiunge le vette di acuminato dolore e limpida amarezza di questo "Non si uccidono così anche i cavalli?": La storia si dipana in un lungo flashback. Robert Syverten narra in prima persona il suo incontro con Gloria Beatty, come lui in cerca di fortuna a Hollywood. Senza soldi e senza prospettive, soli, decidono di unire delusioni e guai e iscriversi a una maratona di ballo col miraggio di guadagnare i mille dollari di premio e, perché no, essere notati da qualcuno che conta nel corso della manifestazione. La competizione diventa ben presto un gioco al massacro. Robert e Gloria, e come loro altri disperati, ballano fino a sfinirsi sotto gli occhi di una giuria mostruosa e distratta, moderni gladiatori incitati da una folla come loro abbruttita dalla fame e dalla miseria e bisognosa di un po' di adrenalina per tirare avanti decentemente. L'esito sarà tragico.
A "Non si uccidono così anche i cavalli?" sta molto stretta l'etichetta di romanzo noir che campeggia sulla bella copertina. Se proprio vogliamo trovargli una collocazione, allora McCoy figura meglio insieme al Nathanael West del "Giorno della Locusta" e al grande Fitzgerald dei bellissimi racconti di Pat Hobby o, perché no, al John Fante dei "Sogni di Bunker Hill". Tutte storie della mecca del cinema negli anni '30, di disillusioni e amarezze, di sconfitte e morte. McCoy, ingiustamente rinchiuso nel ghetto del genere, non è inferiore ai nomi citati. Moltissime le suggestioni partorite da questo romanzo. La storia è raccontato da un uomo che sta per morire e in dissolvenza vediamo apparire un paio di capolavori (e precisamente "La fiamma del peccato" e "Viale del tramonto") del peso massimo Billy Wilder (e non è peregrino riferirsi al cinema in un romanzo hollywoodiano dove a un certo punto fa capolino una "guest star" di nome Frank Borzage e in cui si parla di King Vidor e Rouben Mamoulian!), l'affresco dell'america post-grande depressione è agghiacciante come e più delle migliori pagine di Steinbeck e Caldwell e il grande circo messo in scena dagli organizzatori della maratona di ballo è una bella e terribile immagine simbolo, capace di sintetizzare il grande carnevale americano. Sulla stessa pista si muoveranno il Robert Altman di "Nashville" e il Peckinpah de "L'ultimo buscadero" (nella bellissima scena della parata che precede il rodeo), per non parlare della lungimirante anticipazione della febbre da reality show che ormai sembra aver contagiato tutto il mondo che si vuole civile.

Un paese di merda (di Fabio Orrico)

Siamo alle solite. Daniele Luttazzi che, secondo chi scrive, è nè più nè meno che il più grande comico italiano (e molti, qui a bottega, la pensano come chi scrive) è stato messo alla porta anche da La 7, la rete che, da cinque settimane, trasmetteva il suo "Decameron", probabilmente l'unica cosa degna proposta dalla televisione in questo preciso momento storico. Reo di aver insultato Giuliano Ferrara, Luttazzi subisce l'ennesima epurazione e viene nuovamente imbavagliato. In breve: non è vero. Luttazzi non ha insultato nessuno. La sua battuta non è tecnicamente un insulto. Ferrara invece, di persone, ne ha insultate parecchie, anche e soprattutto nella sua trasmissione quotidiana su La 7, e lui, statene certi, rimarrà al suo posto per molto tempo ancora. Questa nel 2007 è la situazione: non c'è libertà di parola, la televisione è una fogna indescrivibile, viviamo in un paese di merda, una classe politica ottusa e razzista reagisce allo sfacelo che tutti ci travolge semplicemente osservandolo. Guai a dirlo in giro. Scusate, il mio è uno sfogo a caldo. Aggiungo una cosa: oltre a essere, come dicevo, un comico enorme (oggettivamente più grande di Woody Allen per esempio, e pari a Jerry Lewis, per capacità d'invenzione almeno e non per altre affinità) Luttazzi, per eccesso di talento, è anche uno dei più grandi scrittori italiani. "Adenoidi", tanto per fare un titolo, è letteratura, molto più del Buttafuoco sponsorizzato da Ferrara. Ma non c'è pericolo: Luttazzi è tornato a tacere. Che paese di merda.