sabato 29 dicembre 2007

Bando di concorso

signori, come vuole la nostra breve tradizione non smettiamo di segnalare gli eventi che ci paiono interessanti, quindi ecco di seguito il bando del concorso promosso dalla deliziosa Ilenia Tenti, nostra futura collaboratrice

IL COMUNE DI BELLARIA IGEA-MARINA
IN COLLABORAZIONE CON L’ASSOCIAZIONE ISOLA DEI PLATANI E L’ASSOCIAZIONE AGORA’ 2000
BANDISCE :

10° CONCORSO A PREMI DI SCRITTURA AMOROSA
DOVEVAMO SAPERLO CHE L’AMORE BRUCIA LA VITA E FA VOLARE IL VENTO



Regolamento:
1. La partecipazione al concorso implica la piena accettazione del seguente regolamento.
2. Il concorso è rivolto a tutti i cittadini italiani e stranieri senza alcun limite d’età.
3. La partecipazione al concorso è completamente gratuita.
4. La data di scadenza è posta al 31/01/2008; il materiale che perverrà dopo questa data non sarà preso in considerazione dalla giuria del concorso.
5. Il concorso è suddiviso in due sezioni: una (definita sezione 1) per elaborati in forma di poesia o racconto breve editi e/o inediti in lingua italiana che abbiano come tema l’amore nelle sue più varie accezioni; una (definita sezione 2) riguardante la selezione di un commento ad una poesia scelta dalla giuria e sotto riportata nelle modalità che verranno espresse al punto 12 del regolamento.
6. La giuria, il cui giudizio è unico e insindacabile, è unica per le due sezioni. Presidente della giuria è Umberto Piersanti, Professore presso l’Università di Urbino Facoltà di Lettere di Sociologia della letteratura, poeta pubblicato da Einaudi e direttore della rivista “Pelagos”.
7. Per la sezione-1-poesia ogni autore potrà inviare 3 componimenti di massimo 30 versi ciascuno.
8. Per la sezione-1-prosa il limite massimo è di 150 (centocinquanta) parole nel qual numero saranno compresi articoli, congiunzioni, preposizioni.
9. Ogni testo dovrà pervenire in forma dattiloscritta in numero di 4 copie.
10. Gli elaborati partecipanti al premio non saranno restituiti.
11. I primi 10 autori della sezione 1 vedranno le loro opere raccolte in un’antologia che porterà lo stesso nome del concorso edita da “Fara editore” e ne riceveranno in numero di 10 copie ciascuno il giorno della premiazione.
12. La sezione 2 prevede la premiazione del miglior commento scritto in versi o in prosa (massimo 15 righe dattiloscritte che dovrà pervenire in numero di 4 copie) del componimento “Come il vento del Nord rosso di fulmini” del lirico greco Ibico nella traduzione di Salvatore Quasimodo sotto riportato. La giuria esprimerà un giudizio premiando il commento più originale, emozionale e personale.
13. Anche il vincitore della sezione 2 vedrà il suo testo pubblicato nell’antologia sopra citata ricevendone 10 copie il giorno della premiazione.
14. Gli autori premiati saranno avvisati per tempo attraverso telefono o comunicato stampa e sono tenuti a presenziare alla cerimonia di premiazione che avverrà il 17/02/2008 con modalità e in luogo da definirsi; coloro che non potranno essere presenti potranno delegare persone di loro fiducia per il ritiro del Premio assegnato.
15. Ogni elaborato spedito via posta deve giungere in busta chiusa accompagnato da un foglio contenente i seguenti dati personali: nome, cognome, data di nascita, residenza, recapito telefonico, professione al seguente indirizzo: Concorso di scrittura amorosa “L’amore dura ancora” Associazione Agorà 2000 via Vittorio Veneto, 400 47020 Longiano (FC).
16. Per l’invio con posta elettronica le cartelle devono contenere gli stessi dati sopra citati ed essere spedite a scrivilamore@fastwebnet.it
17. PREMI SEZIONE 1:
- 1° Buono omaggio presso l’Agenzia Viaggi Boari per un viaggio in destinazione a scelta di chi lo utilizza.
- 2° Soggiorno di un week-end a Bellaria-Igea Marina.
- 3 °Cena per due persone
18. PREMIO SEZIONE 2:
- Soggiorno di una settimana a Bellaria- Igea Marina

19. Ai sensi dell'art.1° della L.675/96, si informa che i dati personali relativi ai partecipanti saranno utilizzati unicamente ai fini del concorso.


IBICO
COME IL VENTO DEL NORD ROSSO DI FULMINI
A Primavera, quando
l’acqua dei fiumi deriva nelle gore
e lungo l’orto sacro delle vergini
ai meli cidonii apre il fiore, e altro fiore assale i tralci della vite
nel buio delle foglie;

in me Eros,
che mai alcuna età mi rasserena,
come il vento del Nord rosso di fulmini,
rapido muove: così, torbido
spietato arso di demenza,
custodisce tenace nella mente
tutte le voglie che avevo da ragazzo.

Trad. Salvatore Quasimodo


Informazioni:
Agorà 2000 tel. 329 3099

giovedì 13 dicembre 2007

Meglio tardi che mai: "Il circolo chiuso" di J. Coe (di Simone Cerlini)

Circolo chiuso è il dichiarato seguito de “La banda dei brocchi” ed anzi sembra concepito per dare risposta alle domande che il romanzo precedente aveva lasciato irrisolte. Chi ha amato la saga della famiglia Trotter e del gruppo di amici della scuola King William di Birmingham potrà immergersi nuovamente nell’assuefazione da feuilleton a puntate, divertendosi a scoprire i rimandi e le citazioni interne, i piccoli indizi, disseminati con perizia lungo trent’anni di vita inglese (dai settanta al nuovo secolo). I piccoli indizi conducono alla soluzione di enigmi lasciati in sospeso nel primo romanzo: Claire trova il coraggio per scoprire che fine ha fatto la sorella Miriam, scomparsa misteriosamente. Phil Chase fa luce sull’episodio del boicottaggio dell’esame di fisica del compagno di colore Steve Richards. Benjamin scopre l’origine terrena del costume da bagno che lo salvò da sicura vergogna. Ma ancora più potente è la curiosità per le domande che il romanzo precedente come ogni romanzo lasciava al futuro di se stesso: quale futuro attende gli operai di Longbridge con il governo Tatcher e con il New Labour di Tony Blair? Quale sorte riserva il destino per Sean Harding il burlone, o per l’amore impossibile tra Cicely l’attrice e Benjamin il sognatore? Il romanzo porta a compimento tutte le linee narrative, e di fatto chiude il circolo, dipingendo la vita adulta come un prolungamento delle aspirazioni dell’adolescenza, senza rottura reale, in un mondo consolatorio dove alla fine ciascuno ottiene ciò che vuole, ciascuno a modo suo.
La macchia narrativa è dunque costruita come una sovrapposizione di gialli e di misteri, che trovano risposte spesso intuibili, a volte sorprendenti. Rimane, chiuso il libro, l’impressione di essere stati sapientemente ingannati, perché il desiderio di seguire l’intreccio conduce in un labirinto dove gli eventi diventano irrilevanti e traspare anche troppo smaccatamente il senso simbolico della saga, che cerca di redimere un’inventiva altrimenti da soap opera.
I personaggi diventano a ben vedere se non simboli sicuramente caricature: ad esempio Paul, su cui ruota gran parte dell’intreccio, è lo stereotipo del parlamentare del nuovo millennio, per cui tutti i temi sono più grandi di lui, e aderisce alla politica per ambizione, per smania di riconoscimento e visibilità. Doug è il giornalista di successo, nel quale è troppo evidente, al limite del grottesco, lo scarto tra le proprie idee politiche senza se e senza ma (da buon figlio del proletariato industriale militante) e il proprio stile di vita venduto al lusso del migliore quartiere di Londra.
Ma la chiave per tale ribaltamento di senso (dalla saga borghese alla denuncia politica) è nella figura misteriosa di Sean Harding, apparentemente comprimario, che infesta della sua chiassosa assenza tutte le pagine del romanzo. Sean Harding ci parla della fine dello spirito ribelle e rivoluzionario degli anni settanta, tradito in una forma sempre più estrema di conservatorismo.
Per Coe l’Inghilterra a cavallo del duemila è ancora una terra della paura, dove ognuno, anche animato da buone intenzioni, vuole solo e semplicemente difendere il proprio recinto e condividere la propria vita con persone simili, con replicanti di sé, in un circolo chiuso, dove l'altro è escluso. Il sentimento antirlandese degli anni settanta diventa scontro razziale; il fondamentalismo islamico, la retorica delle buone tradizioni antiche, il liberismo esapaerato sono opzioni in cui si maschera il rifiuto dell’altro e del diverso, il desiderio di vincere la paura chiudendo le porte ad ogni elemento destabilizzante, che minaccia il proprio ordine o l’ordine della propria comunità.
C’è dunque evoluzione e non continuità con “La famiglia Winshaw”, dove più evidente era l’intento politico di Jonathan Coe: là era evidente, fin semplicistico, chi erano i cattivi e chi i buoni. Qui invece la differenza è più sfumata se le femministe di sinistra dure e pure sono pronte a difendere top manager senza scrupoli. E lo fanno andando a scavare nella melma della retorica più becera: “Devi imparare a vedere al di là della superficie delle persone, Patrick. Non si tratta solo di quello che fa la gente. Si tratta delle loro qualità umane”.
Questa femminista inflessibile arriverà poi a convivere con un amore architetto nelle colline toscane, sorseggiando prelibato vino rosso insieme ai propri cari amici radical chic, in un mondo dove i veri proletari (pakistani o caraibici) sono tollerati, compresi, compatiti, aiutati, ma è meglio frequentarli il meno possibile. La paura dunque è la chiave anche per comprendere le vicende private dei protagonisti, che si muovono nella dialettica tra la vita famigliare e l’infedeltà, tra la responsabilità e il desiderio dirompente, tra il successo e la realizzazione personale.

Non esiste una terza via, e non si inventa nulla, né in politica né in amore.

Circolo chiuso, di Jonathan Coe, Feltrinelli, 2005
Titolo dell’opera originale: Closed Circle, 2004
Traduzione dall’inglese: Delfina Vezzosi

Meglio tardi che mai: "Bestie" di J.C.Oates (di Simone Cerlini)

Il professore Andre Harrow si scopa le sue studentesse con la complicità interessata della moglie. Il romanzo ci racconta di questo poligono dal punto di vista di una ragazza particolarmente dotata di sensibilità e bei capelli. Ad un primo impatto la lettura è piacevole per noi maschietti perché ci consente di immedesimarci in desideri mai sopiti del tutto: la seduzione di giovani studentesse con la complicità interessata della moglie. Ma questa gustosa identificazione con il docente dongiovanni si arena nella scoperta di una perversione da guardoni ed esibizionisti in cui noi lettori ci specchiamo con disgusto. La fantasia degli amplessi vari e multicolori con le ragazze finisce infatti in squallide polaroid sbattute nelle pagine di riviste pornografiche, in pose quasi didascaliche, che costringono a riconoscere modelli presi dall’abuso di sesso estremo dato da Internet, e che arriva alle foto agghiaccianti di Abu Grahib (individui a quattro zampe trascinati con collare da cane). Questa feroce presa di coscienza del limite del nostro desiderio (erotico in particolare) ha un impatto che colpisce allo stomaco, fa vergognare, annichilisce. Bestie è dunque romanzo sull’abuso (del proprio potere e del proprio carisma, ma anche dell’istinto, che diventa coatto e tiranno).

Bestie è anche romanzo iniziatico, sull’adolescenza. La parabola della protagonista, che si racconta senza pietà in prima persona, è la parabola del riconoscimento della propria bestialità, ma anche della presa d’atto dei suoi limiti. L’infanzia conosce il mondo attraverso le convenzioni e le buone maniere, e lo affronta con la vergogna e il pudore. L’adolescente sperimenta, riconosce il proprio essere carne e lo vive nell’ansia della scoperta. La maturità è la presa d’atto della propria identità, in cui il desiderio viene compreso nei suoi limiti e vissuto come tale. Non siamo di fronte ad una costruzione simbolica semplicistica, eretta su stereotipi: la coppia di perversi maniaci non è identificabile tout court con il male assoluto, anzi è un motore di educazione e coscienza. Non tutto quanto decanta Harrow, nella retorica della liberazione sessuale, viene abbandonato: nella maturità della protagonista si intravvede una scelta bisex, che il cattivo maestro avrebbe approvato e promosso.

La negatività della coppia di adulti sta invece in un tradimento del proprio essere bestie (quindi innocenti), per il godimento dell’uso del potere, per un processo di mercificazione dei corpi, per una manipolazione colpevole. La fine è dunque nella distruzione dei maestri e dei padri, che dopo essere stati adorati e glorificati, vengono negati e uccisi per riscoprire la propria indentità. Il percorso di Gillian, la narratrice, è dunque il percorso di progressivo affrancamento: dalle convenzioni, prima, dalla manipolazione degli altri, poi. E’ dunque un percorso di libertà, nella sua accezione più propriamente femminile, un percorso di liberazione e purificazione nel fuoco.

Il romanzo, nella sua brevità, ricorda le atmosfere noir di “Giro di vite” di Henry James: una progressiva caduta, un continuo avvilupparsi nella perversione più estrema, con la capacità di metterci in guardia, di creare specchi potenti, di rivelare le nostre profonde debolezze. Ed in questo meccanismo è possibile riconoscere un materiale narrativo volutamente denso, che colpisce nelle viscere, incanta, è capace di una denuncia non retorica, ma onesta.

Per capire meglio

Xipe Totec: Divinità della mitologia tolteca, Dio della Terra e della Primavera, cui erano dedicati sacrifici umani crudelissimi: le vittime venivano spellate vive e la loro pelle veniva indossata dai sacerdoti. Questa divinità era il corrispondente maschile della Dea della fertilità Tlalolteotl, ed i sacrifici offerti avevano lo scopo di propiziare i raccolti nel periodo della semina.

Quaalud: sostanza ipnotica

Parole chiave: noir, abuso, iniziazione, adolescenza, vergogna, innocenza, anoressia, sterilità, scoperta, droga, carne, desiderio, bestialità, fertilità, arroganza, oppressione, esibizionismo, pornografia, mercificazione, colpa, liberazione, distruzione, fuoco, arte, poesia.


Bestie, di Joyce Carol Oates, Mondadori, 2002
Titolo dell’opera originale: Beasts, 2002
Traduzione dall’inglese: Katia Bagnoli

martedì 11 dicembre 2007

Su "Michael Cimino" di Giancarlo Mancini (di Fabio Orrico)

Tra i grandi registi americani del nostro tempo Michael Cimino è uno di quelli che può contare meno studi critici organizzati in monografie. Ricordiamo un volume edito da Falsopiano qualche anno fa dal titolo “America perduta” firmato da Roberto Lasagna e Massimo Benvegnù e un lontanissimo quaderno monografico dell’85 del quale non ricordo l’editore ma che ospitava al suo interno bei saggi, tra gli altri, di Claver Salizzato, Piera Detassis, Ermanno Comuzio. Questo testo di Giancarlo Mancini, semplicemente intitolato col nome del regista preso in esame si segnala, a mio avviso, come la migliore delle monografie finora pubblicate.
Innanzitutto metto le carte in tavola: per Michael Cimino e il suo cinema io nutro una vera e proprio venerazione. I motivi sono tanti: la temperatura emotiva che si respira nei suoi film, l’intensità delle sue passioni, la densità del suo linguaggio, l’enfasi dilatata delle sue scene e dei suoi paesaggi. E poi le ossessioni: l’immigrazione, le mille razze e le mille lingue del suo paese, la bandiera americana che appare mossa dal vento nelle sue inquadrature ariose e lentissime, i rituali, le fragorose scene di ballo, gli amori e i duelli all’ultimo sangue. Il tempo passato dal momento in cui ho visto il libro di Mancini sullo scaffale e l’acquisto può essere misurato in nanosecondi. E davvero è stato un incontro felice perché quello di Giancarlo Mancini (critico giovanissimo tra l’altro: è del ’77) è uno splendido lavoro. Innanzitutto l’autore non si limita all’analisi delle opere del regista (che naturalmente c’è, ed è ottima), ma nei primi due capitoli del libro mette in relazione Cimino col cinema del suo tempo, con la sua generazione di colleghi, rilevando differenze e affinità e raccontando lo spaccato di un momento felicissimo e fertile del cinema americano. La nuova Hollywood battezzata da Arthur Penn e Sam Peckinpah (in fondo padri spirituali del grande Michael), la generazione dei movie brats che ha in Coppola la sua testa d’ariete per scardinare le porte del cinema dei padri, Friedkin, Bogdanovich, Hopper, Malick sono alcune delle figure evocate che hanno dato vita insieme a Cimino a una delle fasi più straordinarie della storia di Hollywood, l’epoca in cui, parola di Robert Altman: “Sembrava possibile realizzare qualunque progetto”. E allo stesso tempo Mancini ci spiega come fosse diversa la formazione di Cimino rispetto a quella degli autori suoi coetanei. Studi di recitazione e architettura, apprendistato nel mondo delle pubblicità a sostituire il mare di ore passate dai giovani Scorsese e Spielberg e Milius a vedere film e discuterne. Cimino ribadisce sempre di non essere un cinefilo. Prima di Ford, Kurosawa e Visconti (la sua personale trimurti) ad appassionarlo sono stati Brunelleschi, Lloyd Wright, Degas e Nabokov. E d’altra parte troppo personale è sempre stata la lingua del suo cinema per non sospettare una formazione trasversale a tutto quanto.
Altro pregio del libro è la carrellata, veloce ma precisa, sui progetti non realizzati del nostro, vera e propria filmografia parallela ma immaginaria che comprende un biopic di Dostoevskij (su sceneggiatura di Raymond Carver, scrittore la cui sensibilità è molto affine a quella di Cimino, aldilà delle etichette di “minimalista” e “epico”), un gangster-movie su Frank Costello, un mastodontico western sulla costruzione della ferrovia americana, l’agognatissimo remake de “La fonte meravigliosa” di King Vidor e tanti altri titoli fantasma che contribuiscono a riempire i cassetti di uno dei cineasti più geniali e disordinati di sempre.
Il resto si sa: di Cimino si parla più per la sua megalomania che per il suo talento, e così la sua fitzgeraldiana parabola di gloria e declino è minuziosamente descritta. Gli esordi alla corte di Clint Eastwood (“Una calibro 20 per lo specialista” è un film bellissimo e struggente, di cui si parla troppo poco), gli oscar dell’epocale “Il cacciatore” e la debacle dello smisurato “I cancelli del cielo” (un capolavoro torrenziale pochissimo visto nella sua versione integrale di tre ore e mezza ed è l’unica versione che si può accettare), il ritorno con “L’anno del dragone”, la nuova caduta del “Siciliano” (un film da rivalutare!), gli arabeschi registici sulla tenue trama di “Ore disperate” e l’ultimo (per ora) viaggio nel commovente “Verso il sole” (ovvero come si fa un western nel nuovo millennio). Il libro non informa del corto girato da Cimino per il film collettivo “Chacun son cinema” presentato all’ultimo festival di Cannes. Si dice sia piuttosto deludente e la cosa non ci sorprende: a un regista come Michael è strutturalmente impossibile stare sotto le due ore. Figuriamoci vederlo alle prese con un cortometraggio. Nel frattempo, da quasi dieci anni, Cimino sta lavorando a una versione cinematografica de “La condizione umana” di Andrè Malraux. Sarebbe davvero un bel regalo poter vedere un film simile, ma probabilmente non lo vedremo mai. A differenza di grandi esiliati come Romero, Altman, lo stesso Coppola, Cimino non è mai più riuscito a tornare nelle grazie degli studios. Artista sedotta dall’eccesso e dallo spreco, Michael non ha mai concepito l’altalena produttiva che sposa il low budget al pieno controllo della macchina produttiva. Se Peckinpah ha dovuto subire per tutta la carriera i tagli dei produttori, se Scorsese ha dovuto alternare film personali ad opere su commissione, Cimino si è visto semplicemente costretto al silenzio e probabilmente adesso è davvero troppo tardi per tornare. Sembra la frase fatta di un pensionato ma il cinema americano non è realmente più quello di una volta. Chissà che risate si farebbe il grande Michael se mai trovasse la voglia il tempo il coraggio di vedere una roba tipo “300”.

domenica 9 dicembre 2007

Il grande carnevale americano: Horace McCoy (di Fabio Orrico)

Sono da poco usciti due libri diversamente interessanti. Hanno in comune il merito di avere ispirato due grandi film: mi riferisco a "Non si uccidono così anche i cavalli?" di Horace McCoy (da cui l'omonimo film di Sydney Pollack) e "I guerrieri della notte" di Sol Yurick (versione cinematografica griffata Walther Hill) e, notizia che ai più non interesserà, sono due titoli che l'estensore del presente pezzo aspettava con ansia da anni. Ebbene, il libro di Yurick non mi è piaciuto granché. Mi è sembrato un dramma sociale afflitto da scarso mordente e da molta retorica. Se aggiungete la postfazione dell'autore in cui si demolisce il capolavoro di sua maestà Walther potete immaginare come la guerra tra me e Sol sia ormai dichiarata. Quindi, se permettete, parliamo di Horace, del quale circola da anni un prezioso Einaudi dal titolo "Un bacio e addio" gran noir che comunque non raggiunge le vette di acuminato dolore e limpida amarezza di questo "Non si uccidono così anche i cavalli?": La storia si dipana in un lungo flashback. Robert Syverten narra in prima persona il suo incontro con Gloria Beatty, come lui in cerca di fortuna a Hollywood. Senza soldi e senza prospettive, soli, decidono di unire delusioni e guai e iscriversi a una maratona di ballo col miraggio di guadagnare i mille dollari di premio e, perché no, essere notati da qualcuno che conta nel corso della manifestazione. La competizione diventa ben presto un gioco al massacro. Robert e Gloria, e come loro altri disperati, ballano fino a sfinirsi sotto gli occhi di una giuria mostruosa e distratta, moderni gladiatori incitati da una folla come loro abbruttita dalla fame e dalla miseria e bisognosa di un po' di adrenalina per tirare avanti decentemente. L'esito sarà tragico.
A "Non si uccidono così anche i cavalli?" sta molto stretta l'etichetta di romanzo noir che campeggia sulla bella copertina. Se proprio vogliamo trovargli una collocazione, allora McCoy figura meglio insieme al Nathanael West del "Giorno della Locusta" e al grande Fitzgerald dei bellissimi racconti di Pat Hobby o, perché no, al John Fante dei "Sogni di Bunker Hill". Tutte storie della mecca del cinema negli anni '30, di disillusioni e amarezze, di sconfitte e morte. McCoy, ingiustamente rinchiuso nel ghetto del genere, non è inferiore ai nomi citati. Moltissime le suggestioni partorite da questo romanzo. La storia è raccontato da un uomo che sta per morire e in dissolvenza vediamo apparire un paio di capolavori (e precisamente "La fiamma del peccato" e "Viale del tramonto") del peso massimo Billy Wilder (e non è peregrino riferirsi al cinema in un romanzo hollywoodiano dove a un certo punto fa capolino una "guest star" di nome Frank Borzage e in cui si parla di King Vidor e Rouben Mamoulian!), l'affresco dell'america post-grande depressione è agghiacciante come e più delle migliori pagine di Steinbeck e Caldwell e il grande circo messo in scena dagli organizzatori della maratona di ballo è una bella e terribile immagine simbolo, capace di sintetizzare il grande carnevale americano. Sulla stessa pista si muoveranno il Robert Altman di "Nashville" e il Peckinpah de "L'ultimo buscadero" (nella bellissima scena della parata che precede il rodeo), per non parlare della lungimirante anticipazione della febbre da reality show che ormai sembra aver contagiato tutto il mondo che si vuole civile.

Un paese di merda (di Fabio Orrico)

Siamo alle solite. Daniele Luttazzi che, secondo chi scrive, è nè più nè meno che il più grande comico italiano (e molti, qui a bottega, la pensano come chi scrive) è stato messo alla porta anche da La 7, la rete che, da cinque settimane, trasmetteva il suo "Decameron", probabilmente l'unica cosa degna proposta dalla televisione in questo preciso momento storico. Reo di aver insultato Giuliano Ferrara, Luttazzi subisce l'ennesima epurazione e viene nuovamente imbavagliato. In breve: non è vero. Luttazzi non ha insultato nessuno. La sua battuta non è tecnicamente un insulto. Ferrara invece, di persone, ne ha insultate parecchie, anche e soprattutto nella sua trasmissione quotidiana su La 7, e lui, statene certi, rimarrà al suo posto per molto tempo ancora. Questa nel 2007 è la situazione: non c'è libertà di parola, la televisione è una fogna indescrivibile, viviamo in un paese di merda, una classe politica ottusa e razzista reagisce allo sfacelo che tutti ci travolge semplicemente osservandolo. Guai a dirlo in giro. Scusate, il mio è uno sfogo a caldo. Aggiungo una cosa: oltre a essere, come dicevo, un comico enorme (oggettivamente più grande di Woody Allen per esempio, e pari a Jerry Lewis, per capacità d'invenzione almeno e non per altre affinità) Luttazzi, per eccesso di talento, è anche uno dei più grandi scrittori italiani. "Adenoidi", tanto per fare un titolo, è letteratura, molto più del Buttafuoco sponsorizzato da Ferrara. Ma non c'è pericolo: Luttazzi è tornato a tacere. Che paese di merda.

sabato 13 ottobre 2007

Recensioni: "Pagano" di Gianfranco Franchi (di Fabio Orrico)

Io non conosco Gianfranco Franchi. Almeno, non lo conosco di persona. Con lui ho avuto solo qualche scambio di mail, non so che faccia né che voce abbia. Penso di poter dire che tra noi c’è una stima reciproca cresciuta all’ombra delle cose che abbiamo scritto. Per quanto mi riguarda, dopo la lettura del suo primo romanzo “Pagano” questa stima è, se possibile, aumentata. Un paio d’anni fa c’era già stato il bellissimo “Disorder”, raccolta di racconti rivoluzionaria per stile e struttura, un libro che attraversava piani e campi diversi, con assoluta disinvoltura. Dopo quella sorta di decamerone postmoderno, adesso Franchi ci propone un romanzo che è anche tante altre cose: saggio, pagina di diario, pamphlet, autobiografia (non) autorizzata, sfogo e invettiva. Non è di quei libri che si possono riassumere “Pagano” semplicemente perché non racconta niente. E (quindi) racconta tutto. Gianfranco Franchi mette in scena sé stesso (cosa che in letteratura accade sempre più spesso ultimamente. Un titolo su tutti: lo straordinario“Troppi paradisi” di Walter Siti, ma il personaggio Franchi è infinitamente meno romanzesco del personaggio Siti) e ci racconta la sua vita, il suo spaesamento, la sua rabbia, la sua fragilità. Si parla di precariato, in questo libro, si parla di cose tremendamente concrete come la fatica di arrivare alla fine del mese, la difficoltà immensa di prendere in mano e condurre la propria vita, si parla, insomma, di ciò che oggi è importante. Di ciò che ci riguarda tutti, anche se è veramente duro da ammettere e riconoscere.
“Io non ho storie da raccontare” dice Franchi nel suo libro. Sbagliando. Perché in realtà si è preso l’ingrato incarico di raccontare la storia più scomoda, quella di un popolo e di un paese messo di fronte alla propria regressione. Nella letteratura del precariato di oggi, tra i Desiati e i Bajani, Franchi ha un posto non secondario e sicuramente si colloca su posizioni più estreme, scontrose, ustorie.

“Pagano”, edizioni il Foglio, Piombino 2007

domenica 7 ottobre 2007

La punta della lingua (di Fabio Orrico)

Di seguito programma del festival di poesia "La punta della lingua" organizzato in quel di Ancona dall'associazione culturale Nie Wiem con la direzione artistica dell'amatissimo (da noi della redazione e non solo) poeta marchigiano Luigi Socci. Ci sono anche due parole di presentazione dello stesso Luigi che, oltre a scrivere poesie bellissime, è anche un uomo assai simpatico (e che lavora troppo). Riassumendo: da giovedì 11 ad Ancona. Chi non ci va è pazzo.

Rieccoci a parlare di poesia con questa seconda edizione del nostro
festival. Ancora una volta cerchiamo di farlo senza cadere in sterili
accademismi, evitando la trappola dell’autoreferenzialità e
dell’orgoglio isolazionistico, con un approccio il più possibile
laico.
Certo, nell’epoca dell’utilitarismo a tutti i costi la poesia sembra
essere finita irreversibilmente fuori dai giochi. Comprensibili
dunque le tentazioni di rivendicarne la supremazia, la diversità e
l’irriducibilità alle logiche correnti, sottraendola al confronto,
alla discussione e, in definitiva, alla critica.
E se, molto novecentescamente, tutto questo rappresenta “ciò che non
siamo e ciò che non vogliamo”, quale sia la pars construens è presto
detto: basta una sbirciatina al programma di questa nostra tre giorni
per rendersene conto.
Siamo per una poesia che non guardi al mondo dall’alto della propria
splendida torre d’avorio ma che sia disposta a scendere a patti con
la realtà e a dialogare, a contaminarsi e intrattenere commerci con
le altre arti, discipline, modalità espressive.
Si spiega così, allora, la presenza di una sezione dedicata ad
un’arte completamente nuova come quella della video-poesia, i cui
precedenti (poesia visiva, video-arte e net-art) non hanno esaurito
le infinite potenzialità offerte dall’abbinamento di immagini e
parola scritta o detta.
Continuiamo inoltre a guardare alle esperienze più significative
della poesia italiana contemporanea, con l’illustre presenza di
Vivian Lamarque (campione di qualità e di vendite), Aldo Nove,
Giovanna Marmo e lo sguardo alle più recenti tendenze e generazioni
poetiche, con la presentazione del nuovo Quaderno di Marcos y Marcos.
E se anche abbiamo voluto lasciare fuori, per una volta, la gara di
poesia ad alta voce del poetry slam, questo appuntamento rientrerà
dalla finestra di Palazzo Camerata, dove verrà presentata
un’antologia con i migliori specialisti europei di questa disciplina,
durante il convegno sulla presenza della poesia nei nuovi media.
Ultima non ultima, segnaliamo la presenza del talentuoso musicista
Egle Sommacal, chitarrista che ha militato nella cult band dei
Massimo Volume, più di ogni altra disponibile ad ibridare testi di
alto valore letterario e rock di ricerca.
Nella consapevolezza che la poesia non cambierà il mondo, ci
auguriamo che possa almeno rappresentare un’occasione di ascolto,
dialogo, riflessione e, perché no, di divertimento.



Direzione artistica:
Luigi Socci
Coordinamento e comunicazione:
Valerio Cuccaroni
Organizzazione:
Ass. Cult. NIE WIEM onlus

In collaborazione con:

Regione Marche
Provincia di Ancona
Comune di Ancona
info
www.niewiem.org
info@niewiem.org
339.6185682

Grazie a: Hangar Cult Lab
Progetto grafico: Enzo Ferrara





Giovedì
11. La poesia che si vede
HANGAR CULT LAB H 21:30
Andrea Cortellessa
presenta una concentrata selezione del materiale in gara al concorso internazionale di video-poesia “Doctor Clip” (2005 e 2006) . In collaborazione con “Roma Poesia”.

Sabato
13. Cambiare canale?
“La poesia dentro e fuori dai libri nell’epoca dei nuovi media”
PALAZZO CAMERATA H 17:00
Andrea Cortellessa presenta la collana di poesia “Fuori Formato” da lui curata per Le Lettere di Firenze.
Laura Pugno, legge alcuni testi dal volume Il colore oro. Proiezione foto di Elio Mazzacane.
Sparajurij Lab presenta l’Antologia europea del poetry slam (ed. No Reply).
Letture di Luigi Socci.
Andrea Inglese parla delle opportunità e dei limiti della poesia in Internet.
Introduce e modera Valerio Cuccaroni.

Poeti da antologia
MERCATO DELLE ERBE H 21.30
L etture di Vivian Lamarque, Aldo Nove e Giovanna Marmo.
Interventi musicali di Egle Sommacal.

Domenica
14. In Libreria
LIBRERIA FELTRINELLI H 11.00
Franco Buffoni presenta Più luce, padre. “Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualià” (Luca Sossella ed.).

La nuova poesia
MERCATO DELLE ERBE H 21.30
Presentazione del Nono quaderno italiano di poesia contemporanea (ed.
Marcos y Marcos, 2007)
Introduce il curatore Franco Buffoni.
Intervengono Francesco Scarabicchi e Renata Morresi.
Letture di Alessandro Broggi, Maria Grazia Calandrone,
Massimo Gezzi, Marco Giovenale, Luciano Neri e Giovanni Turra.
Chitarra solista: Egle Sommacal

sabato 6 ottobre 2007

Il nome giusto

Eccolo la il reggicalze… ora la mise era perfetta. Si guardava allo specchio mentre pettinava i lunghi capelli rossi con la calma languida di quando si gode il gesto. Le piaceva il riflesso lucido dei capelli che si imprigionava e liberava continuamente nello specchio. Le rughe c’erano, inutile negarle, coprirle, appianare la faccia con l’asfalto morbido dei trucchi. Del resto le donavano un po’ i segni sul viso, le occhiaie erano ancora ad un livello di ampia fascinazione. Si chiedeva quando da un giorno all’altro le avrebbe trovate repellenti. Quando una ruga da strumento di fascino diventa indicatore di riserva, di benzina in esaurimento? Ed è solo la profondità nella pelle? Il mistero del suo volto continuava ad estasiarla. Intanto aveva pensato il nome giusto. Quella sera il nome giusto era Mario. Se lo sentiva. Da circa un mese si divertiva in questo gioco. Sceglieva a priori il nome dell’uomo giusto per la serata e si imponeva di non concedersi ad altri che a quel nome e al corpo che portava in consegna. Da circa un mese dunque falliva piacevolmente le promesse che si prefiggeva. Quella sera se lo sentiva, avrebbe trovato un Mario capace di farla divertire.
Finito allo specchio completò la vestizione con una giacca di pelle nera che le copriva a malapena la pancia, si diede un’ultima occhiata prima di uscire e si avviò alle scale. La primavera stava esplodendo e le strade erano piene di giovani trasportati come pollini dall’aria tiepida. Dopo due Andrea, un Marco, un Graziano e un Loris, si arrese al primo Riccardo che le capitò, ammaliata dal portamento un po’ sgraziato e dagli occhioni neri color caffè 100% miscela arabica. Si fece condurre da Riccardo in un posto fresco, così le disse. Dopo aver armeggiato un po’ con degli strumenti che lei non aveva mai veduto, Riccardo riuscì ad aprire la saracinesca e la porta della vecchia macelleria di via Mezzofanti. Si distesero sui banchi gelidi e fu presa tra quarti di bue ancora freschi e costicce gia pronte per il giorno dopo. Per essere un Riccardo se la cavava bene pensò. I fanali delle macchine in strada illuminavano di tanto in tanto la scena. Mentre si stava rivestendo sentì quello strano formicolio, forse svenne. Non riuscì mai a capire probabilmente di essere stata sventrata e appesa alla parete come un quarto di bue gocciolante. L’unica cosa che riusci a pensare fu. “Riccardo non è proprio il nome giusto”.

lunedì 1 ottobre 2007

La preghiera del macrobiotico

Cibo nostro che sei nei piatti
sia santificato il tuo inodore e il tuo
insapore
venga il tuo ritegno
e sia fatta la giusta quantita'
come in
vitro cosi in serra,
dacci oggi il nostro miso quotidiano
e rimetti a
noi i nostri sorbetti
come noi li rimettiamo ai nostri detrattori
e non
ci indurre indigestione
ma liberaci dal sale
amen(o che.......)

Paolo Vachino

mercoledì 26 settembre 2007

Meglio tardi che mai 2: "Il paese dove non si muore mai" di Ornela Vorpsi (di Fabio Orrico)

Davvero un bell’esordio questo Il paese dove non si muore mai. Un romanzo o più propriamente un libro di memorie, una serie di racconti che traccia il mosaico di un’infanzia. La quarta di copertina propone un paragone con Agota Kristof, la grande autrice de La trilogia della città di K. La prosa di Ornela Vorpsi, trentottenne scrittrice albanese, in realtà non somiglia molto a quella della Kristof, non ne ha la scheletrica potenza e l’implacabile incedere. Ad accomunarla alla grande ungherese è semmai la capacità di inquadrare i propri ricordi d’infanzia con una pressoché totale assenza di pietas, l’urgenza quasi dolorosa della scrittura e, non ultimo, il destino di scrivere e comunicare in una lingua straniera. Il paese dove non si muore mai è stato scritto, infatti, in italiano. La terra che, come vediamo nell’ultimo capitolo del libro, ha per prima accolto l’esilio della Vorpsi (“A quanto scopi?” sono le prime parole rivolte alla madre dell’autrice da un indigeno) è appunto l’Italia. Ma il paese dove non si muore mai evocato dal titolo è l’Albania, un bizzarro e rituale mondo a parte abitato da uomini indistruttibili e da donne pericolosamente fragili. A impressionare nel libro è lo sguardo diretto e senza filtri della Vorpsi, fin dalla più tenera età ossessionata dalla questione della “puttaneria”, il teorema albanese che sancisce che “una ragazza bella è troia, e una brutta – poverina! – non lo è.” Il sesso e la paura del sesso insieme alla pervasiva presenza della Madre-partito sono gli estremi in cui si gioca l’avventura umana dei personaggi che popolano il libro: “Quando il marito era via per affari o in prigione, si diceva alla donna che non avrebbe fatto male a ricucirsi un po’ là sotto, in modo da convincerlo che avrebbe aspettato lui e soltanto lui, e che la sua dolorosa assenza le aveva ristretto lo spazio fra le cosce (in questo paese il marito ha un istinto molto sviluppato della proprietà privata)”.
Sorta di controeducazione sentimentale al tempo della dittatura, il libro della Vorpsi ha la solida bellezza delle cose semplici e profonde e, in alcune pagine, una forza ustionante che, crediamo, è eredità della rabbia di chi scrive sulle proprie viscere. L’attacco del secondo capitolo è una delle cose più cosmicamente dolorose e definitive che ci sia mai capitato di leggere (in effetti definirlo “bello” ci fa sentire un po’ in colpa): “Avevo sei o sette anni quando mi strinsi forte a mia madre capendo con terrore che lei, mia madre, la chiave di tutto, era impotente”.
Il paese dove non si muore mai potrebbe essere il negativo femminile di un grande libro del passato Le botteghe color cannella di Bruno Schulz. Là era il padre al centro di un mondo infantile e incantato, qui è la madre in una terra pesante e concreta, là era un infanzia sulfurea, scandita con ostinata alternanza da immagini angeliche e infernali, qui il succedersi di episodi sinistramente esilaranti, in cui la barbarie della politica si è fatta carico di far scomparire ogni traccia di mito e nostalgia. In tutti e due i casi, due scrittori che sanno dirci qualcosa sul proprio paese, sulla propria condizione di esseri umani immersi nel loro tempo e, allo stesso tempo e senza moralismi, sulla letteratura.
Per chiudere con le parole di Ornala Vorpsi: “Siamo in Albania, qui non si scherza”.

Meglio tardi che mai 1: "Lunar ParK" di Brett Easton Ellis (di Fabio Orrico)

Questa e quella che segue sono due recensioni scritte per il quindicesimo numero della rivista "Scrittinediti" (www.scrittinediti.it), numero che, come i nostri affezionati lettori sanno, non ha mai visto la luce. Pensando di fare cosa gradita soprattutto all'estensore dei pezzi ve li proponiamo sulla Discarica. Buon pro vi facciano.

Bret Easton Ellis è, secondo chi scrive, uno dei più grandi scrittori viventi. Parte della sua eccezionalità sta nel riprendere costantemente un mondo narrativo così riconoscibile da poter essere definito “di maniera”, e nel saperlo sempre reinventare, escogitando derive e luoghi del racconto, assolutamente inaspettati. Questo valeva per Le regole dell’attrazione, corollario polifonico all’esordio stilizzato e scontroso di Meno di zero e, soprattutto con American Psycho e Glamorama (probabilmente il suo capolavoro), puntualissime e impietose sintesi dei tempi, narrazioni grottesche atroci esilaranti spaventose come in effetti e purtroppo sono i tempi che viviamo.
Con Lunar Park, Ellis si spinge, se possibile, ancora più in là. Le ragioni che fanno di Lunar Park un libro straordinario sono diverse. Proviamo a elencarle.
Lunar Park è scritto da dio (immaginiamo che la traduzione di Giuseppe Culicchia abbia il suo peso): e questa è la più scontata.
Lunar Park riesce, nell’arco di trecentotrenta pagine, a divertirci, a spaventarci e a commuoverci.
Lunar Park riesce, nell’arco delle stesse trecentotrenta pagine, a inanellare registri di scrittura diversi e apparentemente incompatibili, riuscendo nell’impresa folle di farli convivere senza nessun fastidio. Siamo ben aldilà del concetto di “contaminazione tra generi”.
Tutto questo non è poco.
La storia, in breve. Il famoso scrittore Bret Easton Ellis, dopo anni sesso, droga e successi letterari macinati a ritmi insostenibili, decide di mettere la testa a posto. Si sposa con una sua vecchia fiamma, la stella del cinema Jayne Dennis, dalla quale ha avuto un figlio negli anni della sua giovinezza dissipata e col quale tenta, a fatica, di costruire un rapporto e va a vivere con loro due e con la bambina più piccola che la donna ha avuto da un’altra relazione in una villa a Elsinore Lane. Bret ce la mette tutta per essere un buon padre e un buon marito (la descrizione di questi tentativi è esilarante) ma le vecchie intemperanze e gli irrinunciabili vizi, complice anche una festa di halloween organizzata dallo scrittore medesimo, non tardano a riaffiorare. Ma questo sarebbe il meno. Giorno dopo giorno all’interno di casa Ellis, si accumulano inspiegabili incidenti, i mobili cambiano posizione, i pavimenti sono continuamente e inspiegabilmente sporchi di cenere. E ancora: alcuni bambini, rampolli della Elsinore Lane più in vista scompaiono. E ancora: un misterioso serial killer comincia a mietere vittime imitando in tutto e per tutto le gesta di Patrick Bateman in American Psycho. E su tutto questo si staglia l’ombra di Robert Ellis, padre di Bret, il cui ricordo pervasivo e immanente è il motore narrativo su cui viaggia Lunar Park. E proprio nella figura paterna desiderata e ripudiata sta la cifra di questo grande romanzo che è, prima di tutto (e prima ancora di quell’omaggio all’amato Stephen King che Ellis confessa in tutte le interviste), una storia di padri e figli, di affetti perduti e di lancinanti rimpianti.
Un’ultima annotazione: le ultime due pagine del libro sono tra le cose più belle che abbiamo letto da almeno un anno a questa parte: da sole valgono il prezzo del volume. Non perdetelo.

lunedì 24 settembre 2007

Sotto la quercia. Riflessioni a partire da “L’ombra di Heidegger”, di José Pablo Feinmann (di Simone Cerlini)

Siamo nel 1948. Dieter Müller scrive una lettera a suo figlio Martin, in cui gli racconta la propria adesione al nazismo, il ruolo di Heidegger in questa scelta, il proprio senso di colpa. E si spara un colpo. Il figlio anni dopo cerca le proprie radici nella baita di Todtnauberg, per portare al Maestro la domanda che lo ha macerato: “Cosa pensa, lei, di fare?”.
Si dice che “L’ombra di Heidegger” è un libro sulla compromissione di Martin Heidegger, il più grande filosofo tedesco del secolo scorso, con il nazismo. Si scrive che “L’ombra di Heidegger” è un libro sul rapporto tra filosofia e politica. Di questo si parla. Di questo noi non diremo. “L’ombra di Heidegger” è un libro sul radicamento. Sul riconoscersi. Sulla tragedia dell’identità.

“Domani pioverà a Friburgo”
A Dieter Müller un giovane studente regala “La nausea”di Sartre, che si chiude con le parole “Domani pioverà a Bouville”. Dieter si interroga a lungo su quel finale: “L’uomo, nelle cose, decifra il futuro. Ma solo quando vi è radicato. Domani apriva l’orizzonte dell’oltre. E domani pioverà a Bouville esprimeva la saggezza del radicamento.”
Martin Müller, dopo l’incontro con Heidegger, fa i conti con il proprio passato e lo supera, con un piccolo gesto di rassegnazione e speranza. La sua ricerca è giunta ad un punto. E’ a Friburgo. La città in cui è nato, e che ha abbandonato nel 1943, seguendo il padre in fuga, per fare dell’Argentina il proprio paese. Pensa: "Domani pioverà a Friburgo”.
“L’ombra di Heidegger” si chiude con un richiamo al radicamento e illumina un senso nuovo attraverso il quale leggere le sue pagine: la ricerca dell’identità. La saggezza del radicamento, che apre il domani, apre un oltre, è la consapevolezza della propria identità. E tale consapevolezza è tragica. La tragedia non è la lotta tra bene e male, tra giusto e ingiusto, ma tra due giustizie. Tra Creonte e Antigone: questa è, lo scontro tra due legalità vere. La ricerca senza scuse di ciò che siamo può metterci di fronte alla difficile accettazione di noi stessi. Dieter Muller si dà la morte. Martin Heidegger sceglie il silenzio. Non si può chiedere scusa per ciò che siamo. Ci si può elidere, annientare. La grandezza del pensiero di Heidegger, che lascia senza fiato, tramortisce, è la lucida visione, senza filtri, dell’autentico. Leggere Heidegger costringe, interrogandosi sull’Essere, a guardarci in faccia, cancellando l’inessenziale, la chiacchiera, la presenza degli altri in noi, e dunque arrivando alla radice, ad una vergognosa nudità.

“Tutto ciò che è grande è nella tempesta”
Quelli di noi che hanno sentito risuonare la filosofia come eco, che ne hanno riconosciuto la profonda inerenza con ciò che c’è di più profondo e proprio, hanno incontrato queste parole o il senso che ad esse soggiace. Parole che segnano l’inerenza di verità e lacerazione, libertà e conflitto, intensità e morte, autenticità e tempesta. Sono le parole e il senso dell’affermazione della propria identità come non riconducibile a nient’altro, non assimilabile a nulla a costo della perdita di qualcosa di essenziale. Della vita come continua battaglia. Paradossalmente sono le parole, pronunciate dal Maestro nel Discorso di Rettorato, che hanno convinto Dieter Müller ad aderire al nazismo.
“Lo spirito conquista la sua verità solo quando è capace di trovare se stesso nell’assoluta lacerazione”, ci dice Hegel. “Tutto ciò che è grande è nella tempesta”: la conquista dell’autenticità sta nel pericolo, nella guerra. E contro chi è questa guerra? Contro il capitalismo mercantilista che dimentica il vero essere nel possesso delle cose, e contro la massificazione bolscevica che riduce il tutto ad un’unica visione del mondo, ad una sua immagine predigerita e attentamente predisposta, dunque uguale per tutti. Eppure. Eppure quelle parole sono le parole delle minoranze. Sono le parole che rafforzano i vinti, gli esclusi, i freaks, che ricercano e affermano se stessi contro tutto e tutti, con il coraggio della propria identità. Che affermano la propria differenza contro le anime grigie del generico “si”: si dice, si fa, si pensa. Se quello era il nazismo noi siamo nazisti. Se il nazismo di Martin Heidegger è la ricerca spregiudicata e senza compromessi dell’essenziale, che è singolo per ognuno, allora siamo nazisti come Martin Heidegger.

“Cosa pensa, lei, di fare?”
Esiste una minoranza di esuli e liberi. Di uomini che si riconoscono per il non avere appartenenze. Che sanno che l’essere esclusi parte da un senso forte di comunità e destino, e dunque il senso di comunità e destino rifiutano. Che si avvicinano perché sentono a tal punto brutalmente la propria solitudine da farne un principio di similarità e aggregazione. Per loro “tutto ciò che è grande è nella tempesta”. Accade poi che nel Discorso di Rettorato Heidegger parli di comunità e destino. Parli anzi di comunità nazionale. Lì si intuisce per Feinmann il senso del tradimento, dell’essere intrinsecamente marcio nella scelta del Maestro. Lì c’è un discorso politico, non più ontologico, né esistenziale. La ricerca dell’autenticità vuole farsi pensiero forte e tradisce se stessa. Vuole affermare la volontà di una maggioranza. Se l’ontologia fondamentale di Heidegger era il metodo per indagare l’Essere, il riconoscere il fondamento nella terra e nel sangue ne è stato un esito. Diciamo un esito. Uno dei possibili. La verità si dà come evento. La politica non lo può accettare. Essa organizza e orienta le volontà per darsi una norma comune. La politica può accettare un minoranza organizzata, non un minoranza di individui accomunati dal non avere nulla in comune. Una politica che non ammalia i suoi elettori, che non li trascina, che non li organizza è una politica destinata al fallimento. La politica è puttana o violenta. Non si danno alternative. E Heidegger, nel discorso di Rettorato a Friburgo, è stato puttana, è stato violento. Martin Müller in faccia al Maestro gli chiede conto. Dov’era l’autenticità del suo schierarsi? Il suo pensiero si è piegato alla paura e all’obbedienza? O è la sete di potere, l’arroganza e l’ambizione che lo hanno spinto a cavalcare la retorica nazista? Gli chiede conto. Lo fa in virtù della morte del padre Dieter, suicidatosi per il senso di colpa dell’essere stato strumento del nazismo hitleriano, dello sterminio di massa, della violenza sistematica, dell'annullamento degli individui. E ancora chiede conto a noi. Quanto siamo autentici nel nostro aderire? Fino a dove si spinge la nostra complicità? O più tragicamente, se scoprissimo che l’essere autentico è causa di ingiustizia e sopraffazione: “Cosa pensiamo, noi, di fare?”.

“Viveva come su di un ciglio”
In questo rischio siamo chiamati a vivere e a scegliere. Questa maledizione ci appartiene. E da questa comune maledizione non ci è dato sputare sentenze, né emettere giudizi. “L’ombra di Heidegger” vive in questo continuo ripiegamento, questo rischioso scrutare. Martin Heidegger era innamorato di una giovane studentessa ebrea, bella, con occhi scuri che scintillavano in modo travolgente. “Era la sua intelligenza che travolgeva, la sua passione, quel suo gettarsi a capofitto nella vita che si poteva spiegare solo se si comprendeva e si accettava che l’abitava una sete che non avrebbe mai saziato, che non le avrebbe dato tregua, che esercitava su di lei un potere oscuro e temibile: un pathos che avrebbe potuto annichilirla, oppure dare uno spessore inconsueto a ciascuno dei suoi giorni. Viveva come su di un ciglio”. Quella donna era Hannah Arendt. E ci sollecita a non avere paura. A vivere, con lei, come su di un ciglio.

sabato 15 settembre 2007

Consumare (di Ratto Bastardo)

Giorni bui passati in sale piene di cinefili signore veneziane giornalisti seri giornalisti meno seri chi di cinema ci vive chi di cinema vorrebbe vivere chi di cinema fa finta di vivere. Gente famelica con l’imperativo categorico di vedere immagazzinare e commentare. I turisti del cinema sono come quelli delle città, divorati dall’ansia di perdersi qualcosa che verrà loro descritto come imprescindibile da altri turisti, terrorizzati dall’idea di non aver capito, di non aver colto, di non aver afferrato visto immagazzinato digerito e commentato. Teorici dell’etichettatura. Bramosi di cogliere il significato fondamentale, di sputare la propria originalissima rielaborazione del prodotto appena consumato per poi ripartire consumare risputare. Incapaci di attendere il tempo giusto della sedimentazione, della riflessione, del connettere significati. Incapaci di digerire come adolescenti anoressiche terrorizzate dall’idea che il cibo si fermi nel corpo per trasformarsi in altro e depositarsi. Consumo e vomito quello che ho consumato: coazione a ripetere postmoderna in un presente assoluto. Quello che avviene in platea è assolutamente speculare a quello che avviene sullo schermo.

La nostra giuria personale seleziona questi tre titoli, per motivi completamente diversi. Andate a vederli.
Brian De Palma “Redacted”
Kenneth Branagh “Sleuth”
Ken Loach “It’s a free world”

Dio non ha mai parlato: su "La strada" di Cormac McCarthy (di Fabio Orrico)

Un uomo e suo figlio attraversano un'America distrutta da un'ultima, imprecisata e terminale catastrofe. Attorno a loro non esiste più un paesaggio, non esistono più colori, luce, non esiste nemmeno un obiettivo o una meta che diano senso a un qualsiasi orizzonte. Questa la sinossi e l'impressionante scenario dell'ultimo, grande libro di Cormac McCarthy, La strada.
Ormai Cormac è stato canonizzato dall'ayatollah della critica USA Harold Bloom come un classico vivente e, nella schiera dei grandi americani (ai soliti Roth, De Lillo, Pynchon, io aggiungerei anche il talento imprendibile e mutante di Joyce Carol Oates) si segnala per essere il più radicale. La sua musa è spietata e antichissima e se il suo genio si è evidentemente abbeverato alla fonte di Faulkner e della O'Connor noi non possiamo fare a meno di veder brillare dietro la lussurreggiante crudezza della sua prosa il più grande dei libri, quel Qoelet i cui versi informano tutta l'opera di questo amatissimo autore.
Dopo la trilogia del confine (Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura) e il noir Non è un paese per vecchi (già tradotto per il grande schermo dai fratelli Cohen anche se come minimo ci sarebbe voluto Sam Peckinpah e comunque la curiosità è forte), La strada riannoda ai capolavori dello scrittore di El Paso, Il buio fuori e lo sterminato allucinato sanguinoso lirico affresco di Meridiano di sangue, probabilmente il più potente e controllato fra i suoi libri.
Anche adesso come allora un viaggio senza speranza ma con una sostanziale novità. Se l'eterna scorreria di Meridiano di sangue era praticamente dominata dalla statura di un personaggio insieme satanico e shakespeariano come il giudice Holden, in La strada McCarthy inserisce uno sfondo di tenerezza a cui non ci aveva abituato (a parte qualche eco della storia d'amore fra John Grady Cole e Alejandra in Cavalli selvaggi). Padre e figlio, archetipici vagabondi che viaggiano per introdurre il fuoco nel nuovo mondo senza dei, possono contare solo sul loro reciproco amore. Tra Melville e l'Ecclesiaste vediamo spuntare l'ombra del dialogo fra Achille e Teti nel primo libro dell'Iliade.
Percorso dalle frasi implacabili di Cormac, La strada é il viaggio dei due protagonisti fra i resti di una terra di cenere. Non c'è progressione drammatica che non sia interiore e, in fondo, non ci sono colpi di scena. Il mondo di McCarthy è dominato dalla morte e questa inedita tenerezza non è gratuita ma persa in un labirinto in cui l'uomo è bestialmente lupo al suo prossimo. la fantascienza dei sopravvissuti, quella dei Matheson e, al cinema, di Romero, tocca qui vertici di profondità metaforica abbagliante. Adesso la pianto. L'entusiasmo mi rende molesto. E comunque con McCarthy non si può propriamente parlare di entusiasmo. A meno che l'entusiasmo non comprenda anche il dolore. Un libro meraviglioso.

mercoledì 5 settembre 2007

Benvenuti

Benvenuti su queste pagine,
questa è la versione 2.0 del sito www.scrittinediti.it, rivista online nata nel 1999 e morta ufficialmente nel 2006. il nucleo storico della rivista si è trasferito su questo blog con l'idea di proseguire il discorso già iniziato e aggiungere qualcosa di nuovo.
Il discorso già iniziato prevedeva la pubblicazione di testi narrativi e poetici di autori inediti e non, la proposta dei lavori di artisti contemporanei e intervistare scrittori che sentivamo particolarmente vicini.
Il qualcosa di nuovo prevede la voglia di interrogarci su cosa ci circonda, l'esigenza di far saltare steccati fra generi (non solo letterari), la volontà di essere trasversali a tutto, di farci attraversare da tutto.
Per un po' questo sito rimarrà come è ora, decongestionato e desertico. Diciamo che ci stiamo organizzando. Tra poco nuove voci e nuove storie. A presto. nell'attesa di bruciare tutti nella stessa fiamma.