mercoledì 26 settembre 2007

Meglio tardi che mai 1: "Lunar ParK" di Brett Easton Ellis (di Fabio Orrico)

Questa e quella che segue sono due recensioni scritte per il quindicesimo numero della rivista "Scrittinediti" (www.scrittinediti.it), numero che, come i nostri affezionati lettori sanno, non ha mai visto la luce. Pensando di fare cosa gradita soprattutto all'estensore dei pezzi ve li proponiamo sulla Discarica. Buon pro vi facciano.

Bret Easton Ellis è, secondo chi scrive, uno dei più grandi scrittori viventi. Parte della sua eccezionalità sta nel riprendere costantemente un mondo narrativo così riconoscibile da poter essere definito “di maniera”, e nel saperlo sempre reinventare, escogitando derive e luoghi del racconto, assolutamente inaspettati. Questo valeva per Le regole dell’attrazione, corollario polifonico all’esordio stilizzato e scontroso di Meno di zero e, soprattutto con American Psycho e Glamorama (probabilmente il suo capolavoro), puntualissime e impietose sintesi dei tempi, narrazioni grottesche atroci esilaranti spaventose come in effetti e purtroppo sono i tempi che viviamo.
Con Lunar Park, Ellis si spinge, se possibile, ancora più in là. Le ragioni che fanno di Lunar Park un libro straordinario sono diverse. Proviamo a elencarle.
Lunar Park è scritto da dio (immaginiamo che la traduzione di Giuseppe Culicchia abbia il suo peso): e questa è la più scontata.
Lunar Park riesce, nell’arco di trecentotrenta pagine, a divertirci, a spaventarci e a commuoverci.
Lunar Park riesce, nell’arco delle stesse trecentotrenta pagine, a inanellare registri di scrittura diversi e apparentemente incompatibili, riuscendo nell’impresa folle di farli convivere senza nessun fastidio. Siamo ben aldilà del concetto di “contaminazione tra generi”.
Tutto questo non è poco.
La storia, in breve. Il famoso scrittore Bret Easton Ellis, dopo anni sesso, droga e successi letterari macinati a ritmi insostenibili, decide di mettere la testa a posto. Si sposa con una sua vecchia fiamma, la stella del cinema Jayne Dennis, dalla quale ha avuto un figlio negli anni della sua giovinezza dissipata e col quale tenta, a fatica, di costruire un rapporto e va a vivere con loro due e con la bambina più piccola che la donna ha avuto da un’altra relazione in una villa a Elsinore Lane. Bret ce la mette tutta per essere un buon padre e un buon marito (la descrizione di questi tentativi è esilarante) ma le vecchie intemperanze e gli irrinunciabili vizi, complice anche una festa di halloween organizzata dallo scrittore medesimo, non tardano a riaffiorare. Ma questo sarebbe il meno. Giorno dopo giorno all’interno di casa Ellis, si accumulano inspiegabili incidenti, i mobili cambiano posizione, i pavimenti sono continuamente e inspiegabilmente sporchi di cenere. E ancora: alcuni bambini, rampolli della Elsinore Lane più in vista scompaiono. E ancora: un misterioso serial killer comincia a mietere vittime imitando in tutto e per tutto le gesta di Patrick Bateman in American Psycho. E su tutto questo si staglia l’ombra di Robert Ellis, padre di Bret, il cui ricordo pervasivo e immanente è il motore narrativo su cui viaggia Lunar Park. E proprio nella figura paterna desiderata e ripudiata sta la cifra di questo grande romanzo che è, prima di tutto (e prima ancora di quell’omaggio all’amato Stephen King che Ellis confessa in tutte le interviste), una storia di padri e figli, di affetti perduti e di lancinanti rimpianti.
Un’ultima annotazione: le ultime due pagine del libro sono tra le cose più belle che abbiamo letto da almeno un anno a questa parte: da sole valgono il prezzo del volume. Non perdetelo.

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