lunedì 24 settembre 2007

Sotto la quercia. Riflessioni a partire da “L’ombra di Heidegger”, di José Pablo Feinmann (di Simone Cerlini)

Siamo nel 1948. Dieter Müller scrive una lettera a suo figlio Martin, in cui gli racconta la propria adesione al nazismo, il ruolo di Heidegger in questa scelta, il proprio senso di colpa. E si spara un colpo. Il figlio anni dopo cerca le proprie radici nella baita di Todtnauberg, per portare al Maestro la domanda che lo ha macerato: “Cosa pensa, lei, di fare?”.
Si dice che “L’ombra di Heidegger” è un libro sulla compromissione di Martin Heidegger, il più grande filosofo tedesco del secolo scorso, con il nazismo. Si scrive che “L’ombra di Heidegger” è un libro sul rapporto tra filosofia e politica. Di questo si parla. Di questo noi non diremo. “L’ombra di Heidegger” è un libro sul radicamento. Sul riconoscersi. Sulla tragedia dell’identità.

“Domani pioverà a Friburgo”
A Dieter Müller un giovane studente regala “La nausea”di Sartre, che si chiude con le parole “Domani pioverà a Bouville”. Dieter si interroga a lungo su quel finale: “L’uomo, nelle cose, decifra il futuro. Ma solo quando vi è radicato. Domani apriva l’orizzonte dell’oltre. E domani pioverà a Bouville esprimeva la saggezza del radicamento.”
Martin Müller, dopo l’incontro con Heidegger, fa i conti con il proprio passato e lo supera, con un piccolo gesto di rassegnazione e speranza. La sua ricerca è giunta ad un punto. E’ a Friburgo. La città in cui è nato, e che ha abbandonato nel 1943, seguendo il padre in fuga, per fare dell’Argentina il proprio paese. Pensa: "Domani pioverà a Friburgo”.
“L’ombra di Heidegger” si chiude con un richiamo al radicamento e illumina un senso nuovo attraverso il quale leggere le sue pagine: la ricerca dell’identità. La saggezza del radicamento, che apre il domani, apre un oltre, è la consapevolezza della propria identità. E tale consapevolezza è tragica. La tragedia non è la lotta tra bene e male, tra giusto e ingiusto, ma tra due giustizie. Tra Creonte e Antigone: questa è, lo scontro tra due legalità vere. La ricerca senza scuse di ciò che siamo può metterci di fronte alla difficile accettazione di noi stessi. Dieter Muller si dà la morte. Martin Heidegger sceglie il silenzio. Non si può chiedere scusa per ciò che siamo. Ci si può elidere, annientare. La grandezza del pensiero di Heidegger, che lascia senza fiato, tramortisce, è la lucida visione, senza filtri, dell’autentico. Leggere Heidegger costringe, interrogandosi sull’Essere, a guardarci in faccia, cancellando l’inessenziale, la chiacchiera, la presenza degli altri in noi, e dunque arrivando alla radice, ad una vergognosa nudità.

“Tutto ciò che è grande è nella tempesta”
Quelli di noi che hanno sentito risuonare la filosofia come eco, che ne hanno riconosciuto la profonda inerenza con ciò che c’è di più profondo e proprio, hanno incontrato queste parole o il senso che ad esse soggiace. Parole che segnano l’inerenza di verità e lacerazione, libertà e conflitto, intensità e morte, autenticità e tempesta. Sono le parole e il senso dell’affermazione della propria identità come non riconducibile a nient’altro, non assimilabile a nulla a costo della perdita di qualcosa di essenziale. Della vita come continua battaglia. Paradossalmente sono le parole, pronunciate dal Maestro nel Discorso di Rettorato, che hanno convinto Dieter Müller ad aderire al nazismo.
“Lo spirito conquista la sua verità solo quando è capace di trovare se stesso nell’assoluta lacerazione”, ci dice Hegel. “Tutto ciò che è grande è nella tempesta”: la conquista dell’autenticità sta nel pericolo, nella guerra. E contro chi è questa guerra? Contro il capitalismo mercantilista che dimentica il vero essere nel possesso delle cose, e contro la massificazione bolscevica che riduce il tutto ad un’unica visione del mondo, ad una sua immagine predigerita e attentamente predisposta, dunque uguale per tutti. Eppure. Eppure quelle parole sono le parole delle minoranze. Sono le parole che rafforzano i vinti, gli esclusi, i freaks, che ricercano e affermano se stessi contro tutto e tutti, con il coraggio della propria identità. Che affermano la propria differenza contro le anime grigie del generico “si”: si dice, si fa, si pensa. Se quello era il nazismo noi siamo nazisti. Se il nazismo di Martin Heidegger è la ricerca spregiudicata e senza compromessi dell’essenziale, che è singolo per ognuno, allora siamo nazisti come Martin Heidegger.

“Cosa pensa, lei, di fare?”
Esiste una minoranza di esuli e liberi. Di uomini che si riconoscono per il non avere appartenenze. Che sanno che l’essere esclusi parte da un senso forte di comunità e destino, e dunque il senso di comunità e destino rifiutano. Che si avvicinano perché sentono a tal punto brutalmente la propria solitudine da farne un principio di similarità e aggregazione. Per loro “tutto ciò che è grande è nella tempesta”. Accade poi che nel Discorso di Rettorato Heidegger parli di comunità e destino. Parli anzi di comunità nazionale. Lì si intuisce per Feinmann il senso del tradimento, dell’essere intrinsecamente marcio nella scelta del Maestro. Lì c’è un discorso politico, non più ontologico, né esistenziale. La ricerca dell’autenticità vuole farsi pensiero forte e tradisce se stessa. Vuole affermare la volontà di una maggioranza. Se l’ontologia fondamentale di Heidegger era il metodo per indagare l’Essere, il riconoscere il fondamento nella terra e nel sangue ne è stato un esito. Diciamo un esito. Uno dei possibili. La verità si dà come evento. La politica non lo può accettare. Essa organizza e orienta le volontà per darsi una norma comune. La politica può accettare un minoranza organizzata, non un minoranza di individui accomunati dal non avere nulla in comune. Una politica che non ammalia i suoi elettori, che non li trascina, che non li organizza è una politica destinata al fallimento. La politica è puttana o violenta. Non si danno alternative. E Heidegger, nel discorso di Rettorato a Friburgo, è stato puttana, è stato violento. Martin Müller in faccia al Maestro gli chiede conto. Dov’era l’autenticità del suo schierarsi? Il suo pensiero si è piegato alla paura e all’obbedienza? O è la sete di potere, l’arroganza e l’ambizione che lo hanno spinto a cavalcare la retorica nazista? Gli chiede conto. Lo fa in virtù della morte del padre Dieter, suicidatosi per il senso di colpa dell’essere stato strumento del nazismo hitleriano, dello sterminio di massa, della violenza sistematica, dell'annullamento degli individui. E ancora chiede conto a noi. Quanto siamo autentici nel nostro aderire? Fino a dove si spinge la nostra complicità? O più tragicamente, se scoprissimo che l’essere autentico è causa di ingiustizia e sopraffazione: “Cosa pensiamo, noi, di fare?”.

“Viveva come su di un ciglio”
In questo rischio siamo chiamati a vivere e a scegliere. Questa maledizione ci appartiene. E da questa comune maledizione non ci è dato sputare sentenze, né emettere giudizi. “L’ombra di Heidegger” vive in questo continuo ripiegamento, questo rischioso scrutare. Martin Heidegger era innamorato di una giovane studentessa ebrea, bella, con occhi scuri che scintillavano in modo travolgente. “Era la sua intelligenza che travolgeva, la sua passione, quel suo gettarsi a capofitto nella vita che si poteva spiegare solo se si comprendeva e si accettava che l’abitava una sete che non avrebbe mai saziato, che non le avrebbe dato tregua, che esercitava su di lei un potere oscuro e temibile: un pathos che avrebbe potuto annichilirla, oppure dare uno spessore inconsueto a ciascuno dei suoi giorni. Viveva come su di un ciglio”. Quella donna era Hannah Arendt. E ci sollecita a non avere paura. A vivere, con lei, come su di un ciglio.

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