mercoledì 26 settembre 2007

Meglio tardi che mai 2: "Il paese dove non si muore mai" di Ornela Vorpsi (di Fabio Orrico)

Davvero un bell’esordio questo Il paese dove non si muore mai. Un romanzo o più propriamente un libro di memorie, una serie di racconti che traccia il mosaico di un’infanzia. La quarta di copertina propone un paragone con Agota Kristof, la grande autrice de La trilogia della città di K. La prosa di Ornela Vorpsi, trentottenne scrittrice albanese, in realtà non somiglia molto a quella della Kristof, non ne ha la scheletrica potenza e l’implacabile incedere. Ad accomunarla alla grande ungherese è semmai la capacità di inquadrare i propri ricordi d’infanzia con una pressoché totale assenza di pietas, l’urgenza quasi dolorosa della scrittura e, non ultimo, il destino di scrivere e comunicare in una lingua straniera. Il paese dove non si muore mai è stato scritto, infatti, in italiano. La terra che, come vediamo nell’ultimo capitolo del libro, ha per prima accolto l’esilio della Vorpsi (“A quanto scopi?” sono le prime parole rivolte alla madre dell’autrice da un indigeno) è appunto l’Italia. Ma il paese dove non si muore mai evocato dal titolo è l’Albania, un bizzarro e rituale mondo a parte abitato da uomini indistruttibili e da donne pericolosamente fragili. A impressionare nel libro è lo sguardo diretto e senza filtri della Vorpsi, fin dalla più tenera età ossessionata dalla questione della “puttaneria”, il teorema albanese che sancisce che “una ragazza bella è troia, e una brutta – poverina! – non lo è.” Il sesso e la paura del sesso insieme alla pervasiva presenza della Madre-partito sono gli estremi in cui si gioca l’avventura umana dei personaggi che popolano il libro: “Quando il marito era via per affari o in prigione, si diceva alla donna che non avrebbe fatto male a ricucirsi un po’ là sotto, in modo da convincerlo che avrebbe aspettato lui e soltanto lui, e che la sua dolorosa assenza le aveva ristretto lo spazio fra le cosce (in questo paese il marito ha un istinto molto sviluppato della proprietà privata)”.
Sorta di controeducazione sentimentale al tempo della dittatura, il libro della Vorpsi ha la solida bellezza delle cose semplici e profonde e, in alcune pagine, una forza ustionante che, crediamo, è eredità della rabbia di chi scrive sulle proprie viscere. L’attacco del secondo capitolo è una delle cose più cosmicamente dolorose e definitive che ci sia mai capitato di leggere (in effetti definirlo “bello” ci fa sentire un po’ in colpa): “Avevo sei o sette anni quando mi strinsi forte a mia madre capendo con terrore che lei, mia madre, la chiave di tutto, era impotente”.
Il paese dove non si muore mai potrebbe essere il negativo femminile di un grande libro del passato Le botteghe color cannella di Bruno Schulz. Là era il padre al centro di un mondo infantile e incantato, qui è la madre in una terra pesante e concreta, là era un infanzia sulfurea, scandita con ostinata alternanza da immagini angeliche e infernali, qui il succedersi di episodi sinistramente esilaranti, in cui la barbarie della politica si è fatta carico di far scomparire ogni traccia di mito e nostalgia. In tutti e due i casi, due scrittori che sanno dirci qualcosa sul proprio paese, sulla propria condizione di esseri umani immersi nel loro tempo e, allo stesso tempo e senza moralismi, sulla letteratura.
Per chiudere con le parole di Ornala Vorpsi: “Siamo in Albania, qui non si scherza”.

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