sabato 15 settembre 2007

Dio non ha mai parlato: su "La strada" di Cormac McCarthy (di Fabio Orrico)

Un uomo e suo figlio attraversano un'America distrutta da un'ultima, imprecisata e terminale catastrofe. Attorno a loro non esiste più un paesaggio, non esistono più colori, luce, non esiste nemmeno un obiettivo o una meta che diano senso a un qualsiasi orizzonte. Questa la sinossi e l'impressionante scenario dell'ultimo, grande libro di Cormac McCarthy, La strada.
Ormai Cormac è stato canonizzato dall'ayatollah della critica USA Harold Bloom come un classico vivente e, nella schiera dei grandi americani (ai soliti Roth, De Lillo, Pynchon, io aggiungerei anche il talento imprendibile e mutante di Joyce Carol Oates) si segnala per essere il più radicale. La sua musa è spietata e antichissima e se il suo genio si è evidentemente abbeverato alla fonte di Faulkner e della O'Connor noi non possiamo fare a meno di veder brillare dietro la lussurreggiante crudezza della sua prosa il più grande dei libri, quel Qoelet i cui versi informano tutta l'opera di questo amatissimo autore.
Dopo la trilogia del confine (Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura) e il noir Non è un paese per vecchi (già tradotto per il grande schermo dai fratelli Cohen anche se come minimo ci sarebbe voluto Sam Peckinpah e comunque la curiosità è forte), La strada riannoda ai capolavori dello scrittore di El Paso, Il buio fuori e lo sterminato allucinato sanguinoso lirico affresco di Meridiano di sangue, probabilmente il più potente e controllato fra i suoi libri.
Anche adesso come allora un viaggio senza speranza ma con una sostanziale novità. Se l'eterna scorreria di Meridiano di sangue era praticamente dominata dalla statura di un personaggio insieme satanico e shakespeariano come il giudice Holden, in La strada McCarthy inserisce uno sfondo di tenerezza a cui non ci aveva abituato (a parte qualche eco della storia d'amore fra John Grady Cole e Alejandra in Cavalli selvaggi). Padre e figlio, archetipici vagabondi che viaggiano per introdurre il fuoco nel nuovo mondo senza dei, possono contare solo sul loro reciproco amore. Tra Melville e l'Ecclesiaste vediamo spuntare l'ombra del dialogo fra Achille e Teti nel primo libro dell'Iliade.
Percorso dalle frasi implacabili di Cormac, La strada é il viaggio dei due protagonisti fra i resti di una terra di cenere. Non c'è progressione drammatica che non sia interiore e, in fondo, non ci sono colpi di scena. Il mondo di McCarthy è dominato dalla morte e questa inedita tenerezza non è gratuita ma persa in un labirinto in cui l'uomo è bestialmente lupo al suo prossimo. la fantascienza dei sopravvissuti, quella dei Matheson e, al cinema, di Romero, tocca qui vertici di profondità metaforica abbagliante. Adesso la pianto. L'entusiasmo mi rende molesto. E comunque con McCarthy non si può propriamente parlare di entusiasmo. A meno che l'entusiasmo non comprenda anche il dolore. Un libro meraviglioso.

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