giovedì 13 dicembre 2007

Meglio tardi che mai: "Il circolo chiuso" di J. Coe (di Simone Cerlini)

Circolo chiuso è il dichiarato seguito de “La banda dei brocchi” ed anzi sembra concepito per dare risposta alle domande che il romanzo precedente aveva lasciato irrisolte. Chi ha amato la saga della famiglia Trotter e del gruppo di amici della scuola King William di Birmingham potrà immergersi nuovamente nell’assuefazione da feuilleton a puntate, divertendosi a scoprire i rimandi e le citazioni interne, i piccoli indizi, disseminati con perizia lungo trent’anni di vita inglese (dai settanta al nuovo secolo). I piccoli indizi conducono alla soluzione di enigmi lasciati in sospeso nel primo romanzo: Claire trova il coraggio per scoprire che fine ha fatto la sorella Miriam, scomparsa misteriosamente. Phil Chase fa luce sull’episodio del boicottaggio dell’esame di fisica del compagno di colore Steve Richards. Benjamin scopre l’origine terrena del costume da bagno che lo salvò da sicura vergogna. Ma ancora più potente è la curiosità per le domande che il romanzo precedente come ogni romanzo lasciava al futuro di se stesso: quale futuro attende gli operai di Longbridge con il governo Tatcher e con il New Labour di Tony Blair? Quale sorte riserva il destino per Sean Harding il burlone, o per l’amore impossibile tra Cicely l’attrice e Benjamin il sognatore? Il romanzo porta a compimento tutte le linee narrative, e di fatto chiude il circolo, dipingendo la vita adulta come un prolungamento delle aspirazioni dell’adolescenza, senza rottura reale, in un mondo consolatorio dove alla fine ciascuno ottiene ciò che vuole, ciascuno a modo suo.
La macchia narrativa è dunque costruita come una sovrapposizione di gialli e di misteri, che trovano risposte spesso intuibili, a volte sorprendenti. Rimane, chiuso il libro, l’impressione di essere stati sapientemente ingannati, perché il desiderio di seguire l’intreccio conduce in un labirinto dove gli eventi diventano irrilevanti e traspare anche troppo smaccatamente il senso simbolico della saga, che cerca di redimere un’inventiva altrimenti da soap opera.
I personaggi diventano a ben vedere se non simboli sicuramente caricature: ad esempio Paul, su cui ruota gran parte dell’intreccio, è lo stereotipo del parlamentare del nuovo millennio, per cui tutti i temi sono più grandi di lui, e aderisce alla politica per ambizione, per smania di riconoscimento e visibilità. Doug è il giornalista di successo, nel quale è troppo evidente, al limite del grottesco, lo scarto tra le proprie idee politiche senza se e senza ma (da buon figlio del proletariato industriale militante) e il proprio stile di vita venduto al lusso del migliore quartiere di Londra.
Ma la chiave per tale ribaltamento di senso (dalla saga borghese alla denuncia politica) è nella figura misteriosa di Sean Harding, apparentemente comprimario, che infesta della sua chiassosa assenza tutte le pagine del romanzo. Sean Harding ci parla della fine dello spirito ribelle e rivoluzionario degli anni settanta, tradito in una forma sempre più estrema di conservatorismo.
Per Coe l’Inghilterra a cavallo del duemila è ancora una terra della paura, dove ognuno, anche animato da buone intenzioni, vuole solo e semplicemente difendere il proprio recinto e condividere la propria vita con persone simili, con replicanti di sé, in un circolo chiuso, dove l'altro è escluso. Il sentimento antirlandese degli anni settanta diventa scontro razziale; il fondamentalismo islamico, la retorica delle buone tradizioni antiche, il liberismo esapaerato sono opzioni in cui si maschera il rifiuto dell’altro e del diverso, il desiderio di vincere la paura chiudendo le porte ad ogni elemento destabilizzante, che minaccia il proprio ordine o l’ordine della propria comunità.
C’è dunque evoluzione e non continuità con “La famiglia Winshaw”, dove più evidente era l’intento politico di Jonathan Coe: là era evidente, fin semplicistico, chi erano i cattivi e chi i buoni. Qui invece la differenza è più sfumata se le femministe di sinistra dure e pure sono pronte a difendere top manager senza scrupoli. E lo fanno andando a scavare nella melma della retorica più becera: “Devi imparare a vedere al di là della superficie delle persone, Patrick. Non si tratta solo di quello che fa la gente. Si tratta delle loro qualità umane”.
Questa femminista inflessibile arriverà poi a convivere con un amore architetto nelle colline toscane, sorseggiando prelibato vino rosso insieme ai propri cari amici radical chic, in un mondo dove i veri proletari (pakistani o caraibici) sono tollerati, compresi, compatiti, aiutati, ma è meglio frequentarli il meno possibile. La paura dunque è la chiave anche per comprendere le vicende private dei protagonisti, che si muovono nella dialettica tra la vita famigliare e l’infedeltà, tra la responsabilità e il desiderio dirompente, tra il successo e la realizzazione personale.

Non esiste una terza via, e non si inventa nulla, né in politica né in amore.

Circolo chiuso, di Jonathan Coe, Feltrinelli, 2005
Titolo dell’opera originale: Closed Circle, 2004
Traduzione dall’inglese: Delfina Vezzosi

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