martedì 11 dicembre 2007

Su "Michael Cimino" di Giancarlo Mancini (di Fabio Orrico)

Tra i grandi registi americani del nostro tempo Michael Cimino è uno di quelli che può contare meno studi critici organizzati in monografie. Ricordiamo un volume edito da Falsopiano qualche anno fa dal titolo “America perduta” firmato da Roberto Lasagna e Massimo Benvegnù e un lontanissimo quaderno monografico dell’85 del quale non ricordo l’editore ma che ospitava al suo interno bei saggi, tra gli altri, di Claver Salizzato, Piera Detassis, Ermanno Comuzio. Questo testo di Giancarlo Mancini, semplicemente intitolato col nome del regista preso in esame si segnala, a mio avviso, come la migliore delle monografie finora pubblicate.
Innanzitutto metto le carte in tavola: per Michael Cimino e il suo cinema io nutro una vera e proprio venerazione. I motivi sono tanti: la temperatura emotiva che si respira nei suoi film, l’intensità delle sue passioni, la densità del suo linguaggio, l’enfasi dilatata delle sue scene e dei suoi paesaggi. E poi le ossessioni: l’immigrazione, le mille razze e le mille lingue del suo paese, la bandiera americana che appare mossa dal vento nelle sue inquadrature ariose e lentissime, i rituali, le fragorose scene di ballo, gli amori e i duelli all’ultimo sangue. Il tempo passato dal momento in cui ho visto il libro di Mancini sullo scaffale e l’acquisto può essere misurato in nanosecondi. E davvero è stato un incontro felice perché quello di Giancarlo Mancini (critico giovanissimo tra l’altro: è del ’77) è uno splendido lavoro. Innanzitutto l’autore non si limita all’analisi delle opere del regista (che naturalmente c’è, ed è ottima), ma nei primi due capitoli del libro mette in relazione Cimino col cinema del suo tempo, con la sua generazione di colleghi, rilevando differenze e affinità e raccontando lo spaccato di un momento felicissimo e fertile del cinema americano. La nuova Hollywood battezzata da Arthur Penn e Sam Peckinpah (in fondo padri spirituali del grande Michael), la generazione dei movie brats che ha in Coppola la sua testa d’ariete per scardinare le porte del cinema dei padri, Friedkin, Bogdanovich, Hopper, Malick sono alcune delle figure evocate che hanno dato vita insieme a Cimino a una delle fasi più straordinarie della storia di Hollywood, l’epoca in cui, parola di Robert Altman: “Sembrava possibile realizzare qualunque progetto”. E allo stesso tempo Mancini ci spiega come fosse diversa la formazione di Cimino rispetto a quella degli autori suoi coetanei. Studi di recitazione e architettura, apprendistato nel mondo delle pubblicità a sostituire il mare di ore passate dai giovani Scorsese e Spielberg e Milius a vedere film e discuterne. Cimino ribadisce sempre di non essere un cinefilo. Prima di Ford, Kurosawa e Visconti (la sua personale trimurti) ad appassionarlo sono stati Brunelleschi, Lloyd Wright, Degas e Nabokov. E d’altra parte troppo personale è sempre stata la lingua del suo cinema per non sospettare una formazione trasversale a tutto quanto.
Altro pregio del libro è la carrellata, veloce ma precisa, sui progetti non realizzati del nostro, vera e propria filmografia parallela ma immaginaria che comprende un biopic di Dostoevskij (su sceneggiatura di Raymond Carver, scrittore la cui sensibilità è molto affine a quella di Cimino, aldilà delle etichette di “minimalista” e “epico”), un gangster-movie su Frank Costello, un mastodontico western sulla costruzione della ferrovia americana, l’agognatissimo remake de “La fonte meravigliosa” di King Vidor e tanti altri titoli fantasma che contribuiscono a riempire i cassetti di uno dei cineasti più geniali e disordinati di sempre.
Il resto si sa: di Cimino si parla più per la sua megalomania che per il suo talento, e così la sua fitzgeraldiana parabola di gloria e declino è minuziosamente descritta. Gli esordi alla corte di Clint Eastwood (“Una calibro 20 per lo specialista” è un film bellissimo e struggente, di cui si parla troppo poco), gli oscar dell’epocale “Il cacciatore” e la debacle dello smisurato “I cancelli del cielo” (un capolavoro torrenziale pochissimo visto nella sua versione integrale di tre ore e mezza ed è l’unica versione che si può accettare), il ritorno con “L’anno del dragone”, la nuova caduta del “Siciliano” (un film da rivalutare!), gli arabeschi registici sulla tenue trama di “Ore disperate” e l’ultimo (per ora) viaggio nel commovente “Verso il sole” (ovvero come si fa un western nel nuovo millennio). Il libro non informa del corto girato da Cimino per il film collettivo “Chacun son cinema” presentato all’ultimo festival di Cannes. Si dice sia piuttosto deludente e la cosa non ci sorprende: a un regista come Michael è strutturalmente impossibile stare sotto le due ore. Figuriamoci vederlo alle prese con un cortometraggio. Nel frattempo, da quasi dieci anni, Cimino sta lavorando a una versione cinematografica de “La condizione umana” di Andrè Malraux. Sarebbe davvero un bel regalo poter vedere un film simile, ma probabilmente non lo vedremo mai. A differenza di grandi esiliati come Romero, Altman, lo stesso Coppola, Cimino non è mai più riuscito a tornare nelle grazie degli studios. Artista sedotta dall’eccesso e dallo spreco, Michael non ha mai concepito l’altalena produttiva che sposa il low budget al pieno controllo della macchina produttiva. Se Peckinpah ha dovuto subire per tutta la carriera i tagli dei produttori, se Scorsese ha dovuto alternare film personali ad opere su commissione, Cimino si è visto semplicemente costretto al silenzio e probabilmente adesso è davvero troppo tardi per tornare. Sembra la frase fatta di un pensionato ma il cinema americano non è realmente più quello di una volta. Chissà che risate si farebbe il grande Michael se mai trovasse la voglia il tempo il coraggio di vedere una roba tipo “300”.

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