lunedì 18 febbraio 2008

Racconti: "Vite americana" di Gianfranco Franchi

Con grande piacere pubblichiamo un estratto dal nuovo e ancora inedito libro di Gianfranco Franchi, autore, com'è noto, a noi amico e sodale

VITE AMERICANA


Lei è distesa sul divano, batte con le dita sul pavimento e guarda l’impianto stereo. Mi dedica uno sguardo incerto, socchiude le labbra ma non dice niente, sospira e poi scuote la testa. Maya vestida guarda per terra. Continuo a camminare per la stanza. Avanti e indietro. Ogni tanto mi siedo da qualche parte, m’accendo una sigaretta, bevo un goccio d’acqua. La bottiglia è ancora fredda. Rimango alle spalle del divano, perché sto pensando: adesso si leva i pantaloni, si leva le calze, si alza, viene verso di me, si leva la maglietta, si slaccia il reggiseno, scopiamo e magari mi passa. È sempre andata così, mi parte il neurone idiota e buonanotte, a tornare a dialogare c’è tempo e mica è detto che serva. È da un pezzo che stiamo così. Il fuoco se ne è andato e assieme ha sparecchiato qualche domanda. O forse non sono stato bravo abbastanza ad andarmene in tempo, neanche stavolta. E mi sono rotto i coglioni, c’è poco da girarci attorno. Lei invece non si spoglia. La chiamo, le dico vieni qua, non risponde. La fantasia si dissolve in un attimo, il tempo di andare di fronte al divano. Sta là, come una pianta che ha avuto troppa acqua, compiaciuta e un po’ stordita, gonfia. Distesa languida, che ascolta i Sigur Ros e la posa è necessaria. Mi avvicino, mi piego sulle ginocchia. Scricchiolano un po’, come la puntina d’un vinile.

“Ciao” – premo piano con l’indice sulla guancia.
“Che succede…?”
“Niente”.
“C’è qualcosa che non va?”
“No”.

T’ho detto no, non adesso, dai dopo, vediamo, aspetta un attimo, devo finire una cosa, domani dai, domani. Adesso non mi va, non lo so. E non pensi a nient’altro, te l’ho detto che non lo so e che non mi va. Dai adesso no.

“Ti va di uscire?”
“Non lo so…”
“Cinema? Quattro passi? Pizza fuori?”
“Non mi va…”
“Cambio disco?”
“E cambia…”

I Doors sono diventati accademia, i Radiohead non sono adatti al momento, i Blur prima maniera non la divertono più, allora no, e niente italiani che poi rubano i dialoghi e diciamo le parole che stiamo ascoltando, e niente Alice in Chains o Mad Season che non le vanno giù. Mi gioco i Deus del 1994.

“Worst Case Scenario” è un disco complesso e cambia spesso ritmo e colore. Vediamo. Apro il cassetto del lettore cd, levo il disco dei Sigur Ros. Play.
Lei non tiene la intro.

“Cos’è?”
“I Deus”.
“Chi?”
“Forse conoscevi questa…”
Telecomando. Digito 13. Secret Hell. Arpeggio gentile spaccacuore.
Niente.
“No. Nuovi?”
“No”.
“Capito”.

Mi alzo in piedi, tiro una bestemmia ma non mi sente perché parlo praticamente sottotraccia, cammino fino in cucina, metto su un caffè. È il quarto e non ce n’era realmente bisogno, ma se non faccio qualcosa impazzisco. Non riesco a resistere, devo scappare da qua.
Preparo, lei fa capolino dal divano, mi dice io due di zucchero come sempre, io prendo il sale e poi ci ripenso, rimango là a guardare la cuccuma che gorgoglia. Lei si sarà già distesa, e se mi sta guardando non serve.
Intanto comincio a cantare con i miei amici belgi. “I’m in this state / kinda late / but tell me, don’t it look just great? / you / you should be haunting me / some drift get twisted before I even touch ‘em / you should be scaring me / but don’t I only scare myself? / so don’t I only scare myself?”

Verso.
“Tazza grande, tazzina?”
“Tazzina”.
“Non sono mai riuscito…”
“Le tazze da burino te le bevi tu”.
“…”
“Lo sapevo! Te lo sei versato in quella della Roma. Che coatto…”
“E vabbe’, succede. Meglio sicuramente de…”
“E adesso ti sei offeso”.
Non posso ascoltare i Deus se parliamo così.
“No. Tieni, occhio che scotta”.
“Grazie. Mi porti l’acqua?”
Portatore d’acqua.

“Tieni”.
“Grazie”.
“Mi dici che succede?”
“Niente…”
“No, no niente. Dimmi che c’hai…”
“Ma niente, dai. Ho soltanto fatto un brutto sogno stanotte…”
“Dimmi”.
“Stavo a una festa con Claudia e incontravamo delle persone”.
“E poi?”
“E uno di questi era l’amico del mio ex ragazzo, quello che è andato in Germania a lavorare per la Kenwood…”
“mmm”.
“E mi diceva che non pensava di rivedermi più, che ero rimasta identica a tanti anni fa e che mi aveva pensato. Allora diventavo timida, come sempre, sorridevo e andavo in corridoio e là c’era uno specchio e nello specchio non c’ero io”.
“E chi c’era?”
“C’era Claudia”.

Che cazzo di sogno è? E neanche ho voglia di interpretarlo.
“Strano, sì”.
“Strano, no? Strano davvero. Mi sono svegliata con un po’ d’ansia, prima cosa che ho fatto stamattina è stata andare allo specchio”.
“E c’era Claudia?”
“Che scemo…”

“Mi dai un bacio?”

“Mi sa che sei tu che c’hai qualcosa…”
Mi gratto la barba di qualche giorno.
“No. Sono solo un po’ stanco”.
“Ce l’hai con me? È che oggi proprio non mi va… non so… se vuoi lo facciamo lo stesso ma non aspettarti niente…”
“Va a ramengo, dai. Sta buona”.
“Scusa…”
“Non fa niente”.

Guardo fuori dalla finestra. Devo andare a bagnare le piante.
Le faccio cenno, esco. Comincio dal fondo. Prima le bouganville, poi le ortensie e il gelsomino. Poi il rosmarino e all’altezza delle piante officinali appare lei.
“Non è più come prima” – e ha un’aria un po’ diversa da prima.
“No. Mi dispiace tanto però…”
“Forse è colpa mia”.
Passo al basilico.
“No. Non è colpa di nessuno. Va così”.
“Secondo te è meglio se non ci vediamo più, vero?”
“Io non frequento le ex…”.
“Già mi manchi…”
“Immagino”.
Timo. Poca acqua.
“Vuoi una sigaretta?”
“No”.
“Forse è meglio solo che non ci vediamo qualche giorno…”
“Forse”.
Prezzemolo. Cresce.
“Proviamo così? Il primo che ha nostalgia chiama?”
Col cazzo.
“Va bene. Ma torniamo soltanto se stiamo bene e vogliamo soltanto questo”.
Salvia.
“Ce l’hai con me, Guido?”
“Non ce l’ho con te. Non ce l’ho con nessuno”.
“Mi abbracci?”
“Vieni qua. Sta attenta all’acqua”. Che già te ne ho data troppa.

“Stasera stiamo insieme lo stesso?”
No. Te ne devi andare.
“Dipende”.
“Dipende?”
“No, va. Meglio di no. Poi mi viene voglia di te e ci soffro”.
Non è vero.
“Capito”.

Senti io vado, va bene dai, ho parcheggiato un po’ lontano però non voglio che mi accompagni, va bene vai, per favore davvero fammi scendere da sola e fammi andare da sola. D’accordo, rose e limone, cautela con l’acqua al limone, alzo la testa dai vasi, lei ha l’atteggiamento dei grandi momenti, è ferma sulla porta a vetri, mi dice ciao, dico ciao, mezzo sorriso, smozzica un sorriso anche lei, poi si volta prende e va.

Questa cazzo di vite americana non smette di crescere.

Nessun commento: